Il volume G.E.M. Anscombe. The Dragon Lady, Cantagalli 2013, opera della giovane studiosa di filosofia Elisa Grimi, costituisce la prima introduzione in lingua italiana alla vita e al pensiero di Elizabeth Anscombe. Vale la pena prendere spunto da questa pubblicazione fresca di stampa per sottolineare innanzitutto l’importanza di questa notevolissima filosofa del Novecento ancora poco nota in Italia. 



Gertrude Elizabeth Margaret Anscombe, nata in Irlanda da famiglia inglese nel 1919, convertitasi da giovane al cattolicesimo insieme al marito Peter Geach, noto filosofo analitico pure lui, fu l’allieva preferita di Wittgenstein e una dei suoi esecutori testamentari. La Anscombe, come Wittgenstein, segna un inizio nuovo, uno “sguardo nuovo” in filosofia. Si tratta di un approccio squisitamente speculativo, non sistematico, ma attento alla realtà e agli avvenimenti, sensibile più di quello del maestro alle questioni di teoria dell’azione e di etica; un approccio capace di entrare nelle questioni di attualità con energico piglio teoretico. Di qui l’appellativo di “Dragon Lady” con cui era talora chiamata nel suo ambiente. 



Molti seguiranno la Anscombe come maestra di un modo nuovo e originale di fare filosofia, in particolare l’amica e collega Philippa Foot, ma anche Iris Murdoch, Michael Dummett, Donald Davidson e molti altri. Inoltre essa è stata annoverata da John Haldane tra coloro che hanno dato origine ad un nuovo filone di pensiero denominato “tomismo analitico”. L’influsso della Anscombe in etica si è diffuso perfino attraverso autori come Alasdair MacIntyre che, pur non essendo un analitico, ma essenzialmente un “narrativo” che dipende dalla tradizione continentale, risente della sua critica alla filosofia morale moderna e contemporanea.



Quali sono alcuni dei temi su cui il volume si sofferma? Tra i più interessanti occorre menzionare i primi importanti scritti sulla teoria dell’azione e sulla filosofia morale. La Anscombe critica la filosofia morale dominante allora nel mondo anglosassone. In un pamphlet provocatorio, esito di una conversazione alla BBC, dal titolo La filosofia morale di Oxford corrompe la gioventù? Anscombe sostiene ironicamente che la filosofia morale di Oxford non corrompe la gioventù perché questa è già corrotta dalla morale diffusa dalla società contemporanea. Essa esprime in filosofia la corruzione che già sussiste a livello di morale comune soprattutto a opera del consequenzialismo (termine da lei coniato), secondo cui non esiste una natura delle azioni e non esistono azioni in quanto tali malvagie, ma per giudicarle sotto il profilo morale occorre valutare il complesso delle loro conseguenze. 

Questa corruzione si manifesta paradigmaticamente, secondo Anscombe, nel fatto che l’Università di Oxford avesse concesso la laurea honoris causa al presidente degli Stati Uniti Harry Truman che aveva ordinato di lanciare la bomba atomica su civili inermi al fine di accelerare la fine della seconda guerra mondiale. Solo la Anscombe e pochi altri colleghi, tra cui la Foot, si opposero al conferimento dell’onorificenza a Truman. 

Più in generale questa corruzione si esprime in un disinteresse per i fini in etica (de finibus non est disputandum), in un relativismo secondo cui bisogna adeguarsi continuamente ai nuovi standard di vita, e in un ideale di giustizia antiplatonico secondo cui non sarebbe necessario che i singoli siano giusti, ma è sufficiente che lo sia il complesso della società.

Ma la critica della Anscombe alla filosofia morale allora dominante si manifesta più esplicitamente nel famoso saggio Modern moral philosophy, sebbene non solo in questo, come:

– critica all’idea di ragione di Hume, autore che pure ella stima come interlocutore. Si critica la divaricazione fatti-valori, perché i fatti sono sempre inseriti wittgeinstianamente in un contesto relazionale. In particolare, di Hume Anscombe critica lo strumentalismo, la netta distinzione-divaricazione di fini-emozioni da un lato e mezzi-ragioni dall’altro. Vi sono motivazioni per agire che non si riducono agli aspetti conativi. Una virtù come l’essere giusti può essere una di queste. Ella si rifà – contra Hume – alla distinzione di Tommaso d’Aquino tra tendere al bene e tendere al bene “in quanto bene” che è tipica dell’uomo grazie al linguaggio e alla ragione. Particolarmente significativo è il caso di alcuni atti che per la loro interna logica impegnano in prima persona, specialmente dell’atto di promettere tematizzato da Anscombe e ripreso da Foot con l’esempio dell’antropologo che ha promesso all’indigeno di non fotografarlo, neppure quando dorme, e si sente moralmente necessitato a prestar fede alla sua promessa. 

– Critica all’utilitarismo e al consequenzialismo. In queste prospettive etiche si sottovaluta la dimensione dell’intenzione, soffermandosi sulle conseguenze delle azioni, si prescinde cioè dalla condizione del soggetto in un modo che è stato definito Agent neutral. Si trascura così la distinzione fra fini intesi e previsti delle azioni, non riuscendo a isolare l’azione intesa dalle sue conseguenze e mettendo tutto sullo stesso piano. Anscombe sottolinea che il consequenzialismo è incapace di comprendere i divieti in etica, impedendo così un progresso morale dell’uomo e non solo un progresso della sua filosofia morale. Non si può agire moralmente basandosi innanzitutto sulla speranza o sul timore delle conseguenze che seguirebbero a un atto giusto o sbagliato e senza riconoscere in partenza qualcosa come moralmente giusto o sbagliato in se stesso. In questa prospettiva non si può affermare, secondo la Anscombe, che sia certamente preferibile salvare un uomo anziché quattro, qualora si prescinda dalla considerazione di altri aspetti.

Come nota Robert Spaemann, nel consequenzialismo, esito almeno come conseguenza indiretta dell’estensione dell’approccio scientifico ad altri ambiti, manca un’idea di fine in cui si riposa. Anscombe sottolinea sia l’astrattezza di questa impostazione, dovuta all’impossibilità di scorgere tutte le conseguenze di un’azione (sarebbe richiesto all’uomo uno sguardo divino sul mondo), sia la difficoltà di risolvere i casi concreti, sempre nuovi, con una regola. 

Critica anche il carattere astruso degli esempi di molta etica analitica anglosassone che non nascerebbero sempre da una buona intenzione sotto il profilo morale. Secondo Rosalind Hursthouse la Anscombe sottolinea che è errato e tendenzioso affermare che vi siano solo due alternative etiche possibili in una scelta, perché in realtà, a ben vedere, ve n’è più di una. Talora poi una delle due alternative proposte come esclusive non è effettivamente tale perché non è ragionevolmente percorribile. Ella invita, così, a fare maggiormente uso dell’immaginazione nell’esperienza morale. 

– Critica al deontologismo formalistico dell’autolegislazione di derivazione kantiana che Anscombe sostiene essere assurda. Anscombe ammette certamente i doveri come condizioni per raggiungere un determinato fine. Sostiene pure che i doveri assoluti esistono in etica, ma che possono essere giustificati in ultima analisi solo dal comando divino e che sul piano della giustificazione della morale l’autolegislazione non ha senso, una volta venuta meno nella modernità la fede nel comando divino. Ella riprende dal secondo Wittgenstein l’idea che valorizzerà MacIntyre della problematicità di una  ripresa di certi termini, in particolare del dovere inteso in senso forte in un contesto assai diverso rispetto a quello in cui sono sorti originariamente. 

– Secondo la Anscombe non si può fare oggi filosofia morale finché non abbiamo un’aggiornata filosofia della psicologia che ci dica che cosa significhi compimento o fioritura umana (Human flourishing) e come si connettano a essa le virtù. Questo invito per lo più non è stato seguito anche perché non è del tutto chiaro che cosa significhi filosofia della psicologia. Essa sembra riguardare non le scienze, ma quella teoria dell’azione da lei intrapresa poco dopo con l’importante volume Intention, considerato da Donald Davidson la più importante opera di teoria dell’azione dopo Aristotele. Su questo non facile volume si sofferma a lungo e giustamente Elisa Grimi.

Il volume di Elisa Grimi non copre tutto l’arco della produzione della Anscombe, ma vuole introdurre al suo pensiero attraverso la presentazione di alcune opere fondamentali: a partire dai saggi iniziali cui si è accennato (ivi compreso il Commento al Tractatus di Wittgenstein) e dalla polemica  con Clive S. Lewis sul tema dei miracoli su cui ci si sofferma in maniera particolarmente approfondita. 

Il volume si chiude con un’ampia rassegna di testimonianze sulla Anscombe da parte di studiosi che l’hanno conosciuta di persona. Si tratta di una gustosissima serie di riflessioni e di aneddoti che alleggerisce l’esposizione di un pensiero che presenta un’obiettiva difficoltà ad essere compreso e che richiede una lettura paziente. Di qui anche l’utilità di questa prima monografia in lingua italiana.


Elisa Grimi, “G.E.M. Anscombe. The Dragon Lady”, Cantagalli, Siena 2014. pp. 528.