Settantatreesimo minuto di Napoli-Milan. L’allenatore della squadra milanese Clarence Seedorf decide di cambiare qualcosa. Fa uscire Mario Balotelli e getta nella mischia Gianpaolo Pazzini. La partita prosegue e la squadra partenopea vince per 3 a 1. Ma quello che fa notizia è che Mario Balotelli in panchina si lascia andare e piange copiosamente. Si dispera per una prestazione che non è stata all’altezza delle attese sia della squadra sia dell’allenatore sia, probabilmente, di se stesso. Piange. Le telecamere lo inquadrano. Lui decide di coprirsi la faccia con il giaccone. Le telecamere indugiano su di lui, invece di seguire la partita. E’ il campione che crolla. Che testimonia, al di là delle sue esuberanze, che è un uomo. Un ragazzo. Con le sue qualità. Le sue debolezze. Il giorno dopo la vicenda riempie le pagine di tutti i giornali.
Sono incuriosita e allora vado online a vedere come viene trattata la storia. E quello che mi stupisce non sono le notizie, ma i commenti. L’astio. Il sarcasmo. La vendetta. Leggo frasi tipo: “Finalmente si vede cosa vale Balotelli. Uno capace di segnare solo su rigore”. Oppure: “Adesso piange, ma fino a ieri i suoi eccessi facevano notizia”.
Premetto che non ho voglia, né intenzione di difendere Mario Balotelli. Non condivido molti dei suoi comportamenti. Non mi spiego come un talento come il suo, finora, non abbia raggiunto il livello di maturazione e di continuità che gli compete. Almeno secondo me. Ma quello che mi colpisce maggiormente è il fatto che le persone giudichino sempre chi sta sulla scena in maniera diversa. Come se un campione dello sport, un attore, un cantante non fosse un uomo o una donna come tutti gli altri.
Come se non fosse un suo diritto sbagliare, ridere, piangere, scappare, tornare indietro. In queste situazioni tendono ad emergere invidie, risentimenti, rivalse. Negli stessi giorni Balotelli riconosceva la paternità della figlia avuta dalla sua compagna. Anche in questo caso, tanti giudizi. Tanti commenti. Tanti che si sono sentiti in diritto di pontificare. Di essere in fondo compiaciuti di una star che viveva un momento critico. La riflessione che vorrei proporre, allora, è quella sulla natura dell’essere umano e del suo io più profondo. Sulla consapevolezza del limite. E sulla possibilità di cambiare. Di non essere sempre uguali.
“Il passato e il presente – dice Walt Whitman in Il canto di me stesso – appassiscono – io li ho colmati e svuotati. E procedo a riempire la mia prossima piega del futuro. Ascoltatore, lassù! che hai mai da confidarmi? Guardami in faccia, mentre aspiro il furtivo avanzar della sera, (parla sinceramente, nessun altro ti udrà, io non m’attardo che un minuto ancora). Forse che mi contraddico? Benissimo, allora vuol dire che mi contraddico, (Sono vasto, contengo moltitudini.) Mi concentro su quelli che sono prossimi, mi attardo sulla soglia della porta. Chi ha compiuto il suo lavoro quotidiano? chi sarà il primo a finire la cena? Chi desidera camminare con me? Parlerai prima che io sia partito? o ti deciderai quando è ormai troppo tardi?“
Forse è meglio, ogni tanto, farsi delle domande. E aspettare un attimo a dare delle risposte. Tanto meno dei giudizi. E tornare ad aver voglia di rispettare gli altri. In ogni situazione. “Se subito non mi trovi – conclude Whitman – non scoraggiarti. Se non mi trovi in un posto cercami in un altro, In qualche posto mi sono fermato e t’attendo“.