Sorprendere le somiglianze è avventura intrigante della critica letteraria; almeno quando la critica non si limita a incollare etichette che definiscono e distinguono, troppe volte riduttive, paralizzanti, neanche una gruccia, piuttosto una camicia di forza. Certo, chi raccorda autori di diversa estrazione e latitudine, libri vistosamente asimmetrici, personaggi che non condividono un’aria di famiglia, o non sembrano condividerla, corre qualche rischio, in ogni caso rinuncia a un consenso assicurato in partenza, al salario fisso degli applausi convenzionali; in cambio, può sbloccare uno stallo conoscitivo, terremotare le transenne che regolano i percorsi culturali e, non di rado, li bloccano.
Questo azzardo ha voluto tentare Antonio Di Grado in uno svelto “tascabile” su tre scrittori del Novecento in apparenza del tutto estranei l’uno all’altro, come astri di costellazioni eterogenee, fra loro remote.
Che cosa hanno in comune un laico acuminato come Sciascia, un cattolico della tempra di Bernanos e, a completare l’impensabile foto di gruppo, un edonista quale Simenon, impenitente grafomane e seduttore? Difficile trovare lettori che si siano appassionati a tutti e tre, i rispettivi fan club si ignorano a vicenda. E del resto, come ipotizzare verificabili affinità elettive tra profili così divaricati? Troppo distanti i loro mondi, i tipici eroi, altro è il paladino nobilmente esposto della lotta contro una mafia irriducibile, altro il commissario Maigret coriaceo e perspicace nell’ennesima inchiesta vincente, per non parlare dell’affranto curato di campagna, che non sfoglia fascicoli coi precedenti penali di questo o quell’inquisito, semmai si confessa in un diario autocritico, spietato. E tuttavia… E tuttavia, questa ricostruzione perigliosa – Un cruciverba italo-franco-belga, Bonanno Editore – ha i suoi buoni argomenti e non è sprovvista di base documentaria.
La triangolazione, in effetti, non è tutta a carico (e a vanto) dell’interprete, il filo rosso avevano cominciato a predisporlo gli stessi interessati. E che Sciascia, maestro della detection, si fosse occupato di Simenon, scrivendone nel 1961 sul “Mondo nuovo” con pungente chiaroveggenza (fino a tratteggiare «un Dostoevskij mancato»), non è a pensarci bene così singolare, dopotutto si trattava di un collega dello stesso ramo, sebbene non altrettanto insofferente verso le regole d’ingaggio, e ancora legato, da solido professionista, al principio dello smascheramento del colpevole.
Più sorprendente l’attenzione dello stesso Sciascia a Georges Bernanos. Una nota confluita in Nero su nero non ha esitazioni. Ecco Sciascia cooptare, oltre ogni nostro orizzonte d’attesa, quella nettissima personalità: «Uno scrittore cattolico che io (laico, illuminista, voltairiano: e tutto quello che di me si dice e che non nego) sento in questo momento più di ogni altro vicino». Da parte sua, Bernanos si cimentò nel poliziesco, scrivendo, nel 1935, Un delitto; e durante il suo soggiorno brasiliano amava passare dalle pagine di Teresa di Lisieux a quelle di Georges Simenon, per quanto abnorme fosse una simile alternanza. Tant’è: un altro giallo di Bernanos, Uno strano sogno, doveva uscire postumo, con prefazione, guarda caso, di Simenon. E lo stesso giallista belga avrebbe scritto al figlio del grande scomparso, ribadendo la propria stima.
Ha un bel dire, Di Grado, quando mette le mani avanti e chiede venia per il «filo scomposto» di estemporanee, divaganti «congetture»; in realtà, si assesta su una solida filologia, tanto esatta quanto dissimulata. E dal “certo” dei dati sviluppa agnizioni perfettamente a norma, pur insinuandole con l’aria di chi conversa a ruota libera, trascorrendo dall’una all’altra digressione. Se fra questi scrittori serpeggiava stima, qualche motivo doveva pur esserci, e le isoglosse infatti emergono, risultando del tutto plausibili.
Sciascia non fa mistero delle ragioni che lo avvicinano a un francese tutt’altro che illuminista, al contrario antimoderno, monarchico e, come se non bastasse, in combutta per diversi anni con Maurras. Si capisce bene che Bernanos, allo scoppio della guerra di Spagna, inclinasse per la Falange. Eppure, nel pamphlet I grandi cimiteri sotto la luna, questo alfiere della tradizione, con i figli arruolati nei ranghi del generalissimo, non aveva esitato a denunziare le atrocità dei franchisti. Altra milizia, la sua. E Sciascia la sente fraterna. Che ne avrebbe pensato il reduce dell’Action française, il fautore di una cristianità supportata dal principio monarchico? Sappiamo come Bernanos si atteggiò verso André Gide, di cui respingeva senza appello tutte le idee, di cui seppe ammirare la franchezza verso i compagni di strada. Tornando da un viaggio in Unione Sovietica, Gide si era mostrato tutt’altro che reticente, tutt’altro che indulgente nei confronti del socialismo reale, lui iscritto al Partito comunista e non certo tentato da moderatismo e perbenismo. In verità, c’è un perbenismo che affligge tutti gli schieramenti, quello che si specchia in slogan e parole d’ordine; e c’è una disponibilità a misurarsi con ciò che accade, a costo di disturbare i correligionari, di subire la loro indignata scomunica. Via crucis della solitudine: «Gide è un uomo solo», riconosce Bernanos, «e anch’io sono un uomo solo». Ma non sta tessendo l’elogio dell’inappartenenza. È ancora lui a dichiarare: «Viene il momento in cui uno scrittore deve scegliere tra il pubblico e gli amici. Io ho scelto gli amici. Un pubblico si conquista, gli amici si meritano. E bisogna meritarli sempre, senza interruzione, correndo ogni giorno il rischio di contraddirli e di perderli». Parole che Sciascia trattiene; come a tirare le stesse conclusioni per sé.
Non abbiamo dimenticato, frattanto, Simenon; col Quai des Orfèvres, Pigalle, le atmosfere di provincia opache e stagnanti. Un mondo abbandonato dalla grazia o che ha abbandonato la grazia, e sgrana passioni e delitti senza prospettiva di riscatto, tra nebbie tenaci, squallidi interni piccolo-borghesi, alberghetti di infima categoria. Qui si aggira Maigret, armato del suo buon senso contadino e della sua inclinazione a snidare l’umanità di chi ha davanti.
«Cerco di capire», dice questo segugio che si immedesima con coloro a cui dà la caccia, fino ad assumerne le ansie, a soffrirne a sua volta i tormenti; a pro dell’inchiesta, si capisce, la giustizia deve fare il suo corso, il reo venire alla luce e pagare il debito; ma si annida nel taciturno Maigret anche il senso di una comune umanità, di un malessere condiviso e in tutti irrisolto. Fra giusti e reprobi, questo segreto trait d’union: «Ciascuno di noi, chi più, chi meno, è da compiangere».
E Di Grado può, a questo punto, far valere certi squarci di Sciascia in cui circola uno strano flusso tra il poliziotto e il criminale, tra l’incorruttibile e il corrotto. Anche i detective di Sciascia cercano di capire. «Ma c’è di più, a suggerire questa possibile contaminazione fiammingo-sicula: l’empatia tra il commissario francese e le patetiche canaglie in cui s’imbatte, e del cui vissuto s’imbeve, si fonda su una sorta di agnizione, sul riconoscimento cioè di una comune identità, quella di “uomini”, ribadita dal reciproco e criticatissimo onore delle armi tra il capitano Bellodi e il mafioso don Mariano Arena». Nel Porto delle nebbie, Simenon è netto: «Maigret era un uomo e basta, non si poteva etichettarlo». Opportuno allora il rinvio al famoso scambio di battute del Giorno della civetta, dove l’ufficiale dei carabinieri si sente dire dal capomafia «lei è un uomo», e risponde senza esitare «Anche lei». Lo scambievole attestato, irricevibile per i lettori confessionali e timorati, non era l’unica sporgenza scandalosa di quel romanzo; Sciascia aveva fatto anche di peggio, attribuendo allo stesso Bellodi una «fraterna pietà» verso un personaggio assolutamente spregevole, il delatore Calogero Dibella, logorato e travolto dalla sua stessa viltà, dalla paura incontenibile e fin troppo evidente che rivela ai mafiosi il tradimento consumato a loro danno.
Anche lo scrittore di Racalmuto, allievo dei Lumi, emulo di Voltaire, è allora, sotto sotto, un Dostoevskij mancato? Bernanos, invece, fa pronunziare al suo curato di campagna, negli ultimi istanti dell’agonia, le parole di Teresa di Lisieux, «Tutto è grazia». Così, lo scenario di depressione morale e sociale cambia di segno, le circostanze abiette ritrovano uno spiraglio, divengono occasione misteriosamente favorevole, non in forza di se stesse – per se stesse rimarrebbero infeconde e inaccettabili – ma per una energia che le investe dal di fuori. La grazia, appunto; che trasfigura l’abisso della vergogna in dura opportunità di rinascita. Questo linguaggio cristiano caratterizza senza dubbio Bernanos, eppure non lo isola; la sigla finale del curato di campagna risponde alla descrizione del mondo disertato da ogni redenzione (ma non dal bisogno della redenzione) che Simenon prospetta nei suoi gialli, come pure nei suoi “romanzi duri”. Di Grado lo fa dire a Philippe Verdin; ed è convinto, da parte sua, che anche Sciascia, non meno di Simenon, sia testimone dell’uomo sbandato e annaspante.
Intravediamo l’effettivo discrimine che separa i versanti della modernità, e non corre propriamente tra fede e straziato agnosticismo, tra adesione a un credo e presa d’atto del dissesto. Più vicine di quanto non si creda, certe sensibilità inquiete; da cui invece si separa nettamente la stentorea certezza che il mondo non ha bisogno di essere salvato, al contrario è autosufficiente, e si dirige verso un benessere sempre maggiore, sul tapis roulant delle sorti progressive. Una certezza del genere non ha domande che trascendano la capacità umana di risposta, e nemmeno sospetta quel cancello della preghiera a cui si appressa, nel Cavaliere e la morte di Sciascia, il tormentato Vice, «intravedendola come un giardino desolato, deserto».
Chi ha detto che il critico riesce tanto più incisivo quanto più è asettico e distaccato? Se opportunamente messa a fuoco, la passione si rivela un eccellente strumento euristico, ed è una fortuna che Di Grado non sia (né pretenda di essere) estraneo alla mischia, le insolite scoperte del suo Cruciverba nascono tutte dal coinvolgimento. A tal punto l’analista avverte la sfida della materia incandescente e contagiosa da sentirsi alla fine obbligato a una confessione; e nel cantuccio dell’Appendice conclusiva si espone in prima persona, dice la sua intorno a fede, istituzioni, dissidenti, eresie.
E si potrà sicuramente discutere sugli scatti antidogmatici del teso supplemento, come pure sulle mistiche nozze tra spiritualità cristiana e anarchia che Di Grado celebra con fervore. Si dovrà discutere. Purché si tenga presente che questa diffidenza verso le formule riconduce opportunamente la verità cristiana a una persona – il Dio che ama e che libera – e non a una dottrina; purché non si dimentichi che qui il piglio anarchico è anche rivendicazione della libertà contro la forma-stato pervasiva e soffocante.