Guerra e pace è un romanzo del 1869 che narra avvenimenti del 1812 – un romanzo storico, quindi, che arriva a noi dopo centocinquant’anni: si tratterebbe quindi di una “storicità al quadrato”. Ma – ed è questo il punto di partenza di Tiziana Liuzzi – c’è qualcosa, nella sua configurazione complessiva, che lo rende di un’attualità sbalorditiva: ed è, se si può definirla così, la sua natura conflittuale. Il grandioso romanzo di Tolstoj (al centro del secondo incontro barese del ciclo di seminari dedicati alla cultura russa) si presenta infatti come un campo di forze: due istanze, due moventi esistenziali vengono a confliggere – uno è quello “razionalistico”, l’altro quello “panteistico”. Ma sono due nozioni che ne sottendono altre, ben più importanti e – in un certo senso – più decisive.
Guerra e pace narra infatti del tentativo napoleonico d’invasione della Russia. Napoleone, nella cultura russa e in particolare nel pensiero di Tolstoj, non è un semplice personaggio storico, ma sottende una gamma di implicazioni che ne fanno una sorta di prototipo dell’Occidente illuminista: razionalismo geometrico, repubblicano, euclideo. L’invasione di Napoleone viene così a coincidere con un assalto che questa ragione totalizzante, volitivamente onnicomprensiva, compie ai danni di una cultura diversa, di segno quasi opposto: quella russa – ortodossa, tradizionalista e “irrazionalistica”. Così lo scontro tra Francia e Russia viene, nel romanzo, ad assumere i termini di una vera e propria lotta fra civiltà. Ma – ed è qui il fulcro dell’analisi – è una differenza che si instaura non (solo) fra due culture e due tradizioni, bensì fra due modi – entrambi radicali – di rapporto con le cose. Due modi che si rivelano entrambi, in ultima istanza, tragici. Perché se da un lato appare quasi eroica la resistenza che Tolstoj oppone ad un’idea di ragione che coincide con le forme di una bruta misurazione intellettuale, è vero allo stesso modo che anche quell’irrazionalismo popolare e teistico da lui proposto presenta un’oscurità in cui non è mai l’io ad insorgere, ma la sua partecipazione al cosmo.
Per “vivere bene”, per essere felice, l’individuo non deve attraversare una ricerca di significato – questa sarebbe una pretesa intellettualistica, brutalmente razionale, quindi violenta o tutt’al più inutile. La felicità sta quindi, per Tolstoj (e le differenze fra i personaggi del romanzo e persino fra momenti diversi dello stesso personaggio – dal principe Andrej a Pierre, dal mite Platon alla giovane Rostova – stanno lì a dimostrarlo, nella prosa narrativa straordinaria in cui Tolstoj è maestro insuperato) nel passo con cui l’uomo compie un passo indietro rispetto a se stesso e si fa assorbire dal cosmo di cui è parte, diventa “particella del tutto”. Abdicando ad un attraversamento razionale del significato, l’uomo (e in particolare l’uomo russo, che di questa cultura sarebbe l’esponente “qualificato”) dovrebbe sopprimere la coscienza e l’impeto dell’io in favore dell’impeto più vasto della natura tutta.
Ed è bene ricordare che non è che Tolstoj neghi l’esistenza di un significato del vivere, che potrebbe anche esserci: ciò che egli nega è che questo significato possa essere realmente utile alla felicità del singolo. Si tratta di un panteismo ultimamente distruttivo, poiché in esso l’uomo in quanto individuo sembra essere destinato a sparire. Sparire nel tentativo inutile di comprendere il senso delle cose; sparire soppresso dal freddo razionalismo occidentale; sparire come esistenza individuale dentro il flusso ininterrotto del cosmo: sono in ultima istanza tre declinazioni, diversamente tragiche, di una medesima fine, di una remissione.
Ma qualcosa può accadere, e di fatto accade: il miracolo di un evento alogico, inedito, come è, ad esempio, il personaggio di Nataŝa, simbolo forse della Russia intera, capace, non malgrado il dolore del lutto ma proprio grazie ad esso, di un’emergenza umana in cui l’io riaccade, come la Liuzzi ha voluto ricordare in conclusione: «La vita non del cosmo, non della natura, ma dell’uomo, ha un’essenza che non è la vita stessa, ma l’amore alla vita di un’anima, di un io»; come a ribadire che – drammaticamente, e il grande romanzo tolstojano è lì a dimostrarlo – non esiste salvezza, non esiste soluzione né felicità che tenga fuori l’io del singolo, che lo escluda; non esiste accesso all’essere senza che sia il singolo uomo – lui e nessun altro – a desiderare quel passo e a volerlo compiere.
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L’incontro dal titolo: “Guerra e pace: lo slancio della vita oltre il nichilismo e il panteismo” è stato il secondo appuntamento del ciclo d’incontri dal titolo “Al fondo del nulla, il soffio della vita: viaggio nella cultura russa”, a cura del Centro Culturale di Bari. Il prossimo appuntamento è oggi, martedì 25 febbraio: “Rivoluzione e poesia nel Dottor Zivago di B. Psternak”.