Non è il monoteismo – la pretesa che esista un unico Dio – la fonte e il fondamento dell’intolleranza religiosa e della violenza? È la domanda che si poneva Ratzinger nel suo volume Fede Verità Tolleranza: «Tolleranza e fede nella verità rivelata sono concetti che si oppongono? O, in altre parole, si possono conciliare fede cristiana e modernità? Se la tolleranza è uno dei fondamenti dell’epoca moderna, affermare di aver trovato la verità non è forse una presunzione superata, che dev’essere respinta, se si vuole spezzare la spirale della violenza che attraversa la storia delle religioni? Questa domanda si pone oggi in maniera sempre più drammatica nell’incontro tra il cristianesimo e il mondo, e si diffonde sempre più la convinzione che la rinuncia da parte della fede cristiana alla rivendicazione di verità sia la condizione fondamentale per ottenere una nuova pace mondiale, la condizione fondamentale per la riconciliazione tra cristianesimo e modernità».



La domanda posta da Ratzinger, dopo l’11 settembre 2001, l’abbattimento delle torri a New York da parte dei piloti suicidi di Al-Qaeda e la reazione teocon patrocinata dall’amministrazione Bush, è tornata a più riprese nella pubblicistica laica. In Germania il testo di Peter Sloterdijk, Il furore di Dio. Sul conflitto dei tre monoteismi (2007), di fronte allo scontro teologico-politico che divide le religioni monoteistiche, si richiama, come unica terapia possibile, all’«illuminismo massonico» rappresentato dalla parabola dei tre anelli di Lessing, ad un «rinascimento egittocentrico», politeistico e tollerante. Non è il solo. Anche l’egittologo Jan Assmann lo segue a ruota nella terapia (Non avrai altro Dio. Il monoteismo e il linguaggio della violenza, 2007) indicando, anche lui, nella pretesa monoteistica della verità la vera fonte dell’intolleranza e della violenza. 



Le accuse di Sloterdijk e di Assmann non sono certo isolate. Traducono il sentire comune della cultura post-modernistica per la quale l’idea di verità, comunque intesa, rappresenta una minaccia per la democrazia la quale può vivere solo nell’orizzonte di un pluralismo scettico, in quel “politeismo dei valori” che, secondo Max Weber, era il plafond del mondo secolarizzato. Se verità = violenza, come teorizzava a suo tempo Gianni Vattimo alla scuola di Nietzsche, allora tutto ciò che riconduce all’Uno, al Dio unico, è segno d’intolleranza. Dopo l’11 settembre questa è l’accusa che il post-modernismo rivolge alle religioni abramitiche: cristianesimo, ebraismo, islam. Il conflitto teologico-politico che insanguina il mondo non può essere semplicemente imputato alle deviazioni religiose, agli estremismi fanatici di Al-Qaeda. È la stessa religione monoteistica che, in quanto tale, è patologica. 



Un’asserzione forte che dimentica un fattore essenziale. In questi anni non è stata tanto la cultura laica, in gran parte irreggimentata nella guerra americana contro l’Iraq, a contrastare la violenza teologico-politica, quanto la religione cristiana. È stato Giovanni Paolo II che si è opposto, in ogni modo, alla guerra irachena e all’idea della “crociata” dell’Occidente “cristiano” contro l’islam. In ciò seguito da Benedetto XVI che, nel discusso discorso di Ratisbona, non voleva certo suscitare l’odio verso il mondo islamico quanto neutralizzare ogni legittimazione religiosa della violenza. Il cattolicesimo, abbandonato con il Concilio Vaticano II ogni nostalgia del Sacrum imperium, si dimostra oggi nel mondo come il più strenuo difensore della pace contro i conflitti e le violenze.  Una posizione che ha trovato in questi anni il suo pensiero più originale nelle riflessioni sul legame ancestrale tra la violenza e il sacro, legame interrotto dal sacrificio di Cristo, ad opera del pensatore francese René Girard. 

 A conforto di questa posizione viene ora un importante documento, stilato dalla Commissione Teologica Internazionale, su Dio Trinità, unità degli uomini. Il monoteismo cristiano contro la violenza. Frutto del lavoro di cinque anni (2009-2014) il testo chiarisce sia la problematica della nozione di monoteismo, la quale «rimane ancora troppo generica quando sia usata come cifra di equivalenza delle religioni storiche che confessano l’unicità di Dio», sia la semplificazione che «riduce l’alternativa alla scelta fra un monoteismo necessariamente violento e un politeismo presuntivamente tollerante». Una contrapposizione fortemente ideologica, questa, perché il politeismo antico non fu affatto pacifico dacché le guerre tra popoli, come in Omero, sono al contempo guerre tra dèi. 

Un’opposizione, comunque, che nella sua veste moderna è una conseguenza delle lotte di religione allorché, di fronte all’Europa cristiana divisa, la cultura laica viene idealizzando un politeismo virtuoso e pacifico. Un’opposizione che vorrebbe tornare attuale oggi, ma che trova le sue armi spuntate. È con il Vaticano II, con la dichiarazione Dignitatis humanae sulla libertà religiosa, e poi con la celebre Dichiarazione con cui Giovanni Paolo II, nella celebrazione del 12 marzo 2000, chiese perdono per tutte le colpe passate dei cristiani, che la Chiesa ha definitivamente preso congedo dal modello teologico-politico medievale-moderno, responsabile delle guerre di religione. 

Con questi atti la Chiesa cattolica si è idealmente ricollegata al paradigma dei primi secoli nei quali la distinzione tra la fede e la spada, tra il Regno di Dio e quello del mondo, era chiara. Per questo, come recita il documento della Commissione Teologica Internazionale, «si tratta di riconoscere al kairòs dell’irreversibile congedo del cristianesimo dalla ambiguità della violenza religiosa, il tratto di svolta epocale che esso è obiettivamente in grado di istituire, nell’odierno universo globalizzato». 

Il cristianesimo, purificato e criticamente consapevole della sua storia, non ha bisogno della parabola dei tre anelli di Lessing per divenire tollerante. La tolleranza, il rispetto, il desiderio di pace sono alla sua origine. «L’evento cristologico falsifica – in radice – ogni appello alla giustificazione religiosa della violenza, proprio mentre essa vorrebbe imporre a Dio di confermarla. Il Figlio, nel suo amore per il Padre, attira la violenza su di sé risparmiando amici e nemici (ossia tutti gli uomini). Il Figlio, che affronta e vince la morte ignominiosa, allestita come dimostrazione della sua impotenza, annienta in un solo atto il potere del peccato e la giustificazione della violenza».

Leggi anche

PAPA/ Ecco dove sbagliano quelli che dicono…"Francesco è ambiguo"LETTURE/ Chiesa e politica, il lungo cammino della libertà (dal potere)PAPA/ Francesco e il "fantasma" di Scalfari