Eugenio Corti era un uomo bellissimo, era un vero cavaliere medievale. Molti forse potrebbero raccontare storie simili alla mia, perché aveva un cuore grande. Ero ancora in quell’età in cui si brucia e non si ascoltano i consigli dei genitori, ma si cerca molto e io cercavo risposte nei libri, li consumavo. Un giorno trovai i suoi. Venuto a sapere di una sua conferenza vicino a casa, ebbi la strana idea di scrivergli una lettera – non esisteva la posta elettronica – e di consegnargliela. Gli confessai che leggendo le sue storie mi ero sorpreso a pregare per i protagonisti, ma era la lettera di un adolescente turbato, bramoso e insoddisfatto. E lui mi rispose.
È nata così un’immeritata e discreta amicizia. L’ho incontrato che avevo 18 anni, in quell’età in cui si cerca di capire – e si comincia a progettare concretamente – quello che si vuole fare da grandi. Io mi son detto: “Voglio essere come lui”. Avevo già letto i suo libri con passione, ma i suoi occhi… i suoi scrutavano chi gli stava davanti con la stessa intensità con cui un tempo aveva scrutato l’orizzonte della steppa innevata, direi che penetravano.
Ho incontrato poche altre persone, guardando le quali ho desiderato essere come loro. Certamente buona parte del fascino che esercitava su di me nasceva dal fatto che, come il mio amato nonno materno, aveva combattuto in guerra con onore e quello che diceva, i giudizi che dava non erano mai discorsi imparati a memoria: nascevano invece dal sangue e dall’esperienza. Perché ad esempio rispettare una ragazza, non baciarla e non possederla quando si presenta l’occasione? Lui si era trovato in quella circostanza durante la guerra di liberazione e l’aveva raccontata, non in modo moralistico, però. Ne aveva descritti la fatica e il dolore: abbiamo un destino crudele, ma è un destino da giganti.
Il solo fatto che Eugenio Corti ci fosse era per me il segno che la mia vita poteva essere grande, se l’avessi voluto. Ho dovuto lottare per convincere certi professori (leggermente ideologici) a lasciarmi svolgere la tesi su di lui, ma ce l’ho fatta. Così sono stato a casa sua dove mi ha accolto con ogni riguardo. Era il 2004 e non era più agile nei movimenti, ma insistette per farmi di persona le fotocopie degli appunti che aveva preso nei giorni della ritirata di Russia, della lettera che gli aveva scritto Benedetto Croce e delle recensioni che aveva ricevuto: questo non per spirito possessivo verso preziose fonti storiche, ma per servire me, che ero suo ospite. Sono stato a trovarlo anche due volte con mio padre, in seguito ci ringraziò “per il compact disc” che gli teneva compagnia.
Da quando insegno alle medie, ogni anno cerco di leggere coi miei alunni almeno qualche passo del Cavallo Rosso. Dopo aver appreso della sua morte, ho ripreso in mano la lettera che mi scrisse dopo aver letto la mia tesi e mi sono commosso. Uno dei più grandi scrittori del ‘900 mi ringrazia (in verità non credo la mia tesi fosse niente di straordinario), mi dice che ha letto il mio lavoro nelle ore serali, quello che dedica “alle letture che non devono essere disturbate: sono così rimasto in tua compagnia per diversi giorni. Siamo dunque diventati più amici di prima”.
Grazie a lui ho capito che sono miei amici tutti quegli artisti che scrivono delle cose grandi che diventano per me, perché io posso stare in loro compagnia. Conclude quella lettera così: “Con paterna amicizia, tuo Eugenio Corti”. Corti non ha mai avuto figli biologici e immagino che lui e sua moglie ne abbiano anche sofferto. Beh, non ha avuto due, tre, cinque o dodici figli, ma ne ha avuti migliaia e ne avrà altri perché un padre continua a generare attraverso le sue opere. E io sono davvero grato di essere stato così anche figlio suo.