“Era un Paese molto più semplice e povero. Facevamo il morbillo e il servizio militare, giocavamo per strada e avevamo sempre le ginocchia sbucciate. La marcia più alta era la quarta, c’erano le diapositive, Sandokan e i gettoni del telefono. Però il futuro non era un problema, ma un’opportunità”.
Per un ventenne di oggi, il breve testo che compare sulla quarta di copertina dell’ultimo libro di Aldo Cazzullo (Basta piangere! Storie di un’Italia che non si lamentava, Mondadori, 2013), può sembrare la descrizione di un’epoca remota, qualcosa che si studia sui libri di storia, quando va bene. In verità, non è altro che una fotografia – magari in bianco e nero, oppure uscita in tempo reale da una polaroid – della vita che si respirava quotidianamente durante quelli che possiamo chiamare, oggi più che mai, gli anni della pre-modernità tecnologica. Quei giorni, molto reali e per niente virtuali, che hanno vissuto intere generazioni a partire dal dopoguerra, fino al turning point la cui linea di separazione si può collocare più o meno all’inizio degli anni novanta del secolo scorso.
Da quel momento un monitor, una tastiera e un mouse hanno avuto gradualmente la meglio sui bar e i pub dove trovarsi, sui negozi dove fare acquisti, sui libri da leggere, i film da guardare o la musica da ascoltare. La società, in effetti, è cambiata radicalmente, contaminando alla radice gli spazi umani e le stesse fondamenta delle relazioni, siano esse familiari, private o professionali.
L’autore (classe 1966, piemontese delle Langhe) è inviato ed editorialista del Corriere della Sera, oltre che scrittore. La sua generazione – come quella di chi scrive – è in qualche modo lo specchio di due mondi: nati e cresciuti in un’epoca, ci siamo trovati adulti in un’altra, spesso spiazzati, in difficoltà a tenere il passo, increduli nel guardarci intorno e notare che tutto è cambiato nell’arco di vent’anni. Perché in questi vent’anni è successo di tutto, non solo a livello tecnologico. Nel nostro paese, ad esempio, è finita una repubblica ed è iniziata una guerra politica senza precedenti, violenta, senza esclusione di colpi. E poi, gradualmente, la crisi, la grande crisi: economica, certamente, ma anche sociale, morale, culturale. La recessione, ovviamente, è globale e non tipicamente “italiana”, almeno nei grandi numeri. Ma esclusivamente italiana lo è nei piccoli, perché ha colto un paese impreparato a fronteggiarla, vittima prima di tutto dei suoi stessi (enormi) difetti e debolezze. Un paese che si ritrova suo malgrado a negare un futuro ai giovani e quindi, paradossalmente, a privarsi dell’avvenire. Un paese che taglia le gambe a quarantenni e cinquantenni che nell’età della maturità si ritrovano spesso senza lavoro e con l’impossibilità di trovarne un altro, oppure – e questo sarebbe il male minore – di crescere nell’azienda in cui hanno investito tutto.
In Basta piangere! Cazzullo si rivolge prima di tutto ai giovani di oggi, ma anche, di rimando, alla sua generazione: invita a rimboccarsi le maniche, a non lamentarsi, ad agire. E affronta l’ultima fatica editoriale partendo da una prospettiva interessante, che merita senz’altro un approfondimento: “Non ho nessuna nostalgia del tempo perduto. Non era meglio allora. È meglio adesso. Un adolescente dell’Italia di oggi è l’uomo più fortunato della storia. Anche se nato in una famiglia impoverita dalla crisi, ha infinitamente più cose e più opportunità di un ragazzo di qualsiasi generazione cresciuta nel Novecento”.
È vero, da un certo punto di vista, ma è solo una questione di proporzioni, di epoche, di “beni” e “bisogni”. È indubbio che i nostri bisnonni – non solo, in alcuni casi anche nonni e genitori – non avevano neanche l’acqua corrente, gli elettrodomestici non esistevano, le comunicazioni viaggiavano su carta o telefono (fisso), quando andava bene. Ma è anche vero che le esigenze erano diverse, la struttura della nostra società ancora legata a stili di vita costruiti e rimaneggiati nei secoli, i rapporti umani profondamente differenti, e così le aspettative. Il progresso e il benessere sono realmente esplosi solo all’indomani della seconda guerra mondiale, il periodo della ricostruzione, del boom economico e delle nascite record, l’epoca che il grande storico Eric Hobsbawm ha definito “l’età dell’oro” nel suo grande affresco del “secolo breve”. I nati nel decennio tra i cinquanta e i sessanta, loro sì che possono essere definiti la generazione “fortunata” per eccellenza, probabilmente la più fortunata della storia. I loro padri, al confronto, avevano vissuto in un mondo arcaico fatto di privazioni e sacrifici, con una guerra spesso combattuta in prima persona. Se si parla di avere “infinitamente più cose e più opportunità di un ragazzo di qualsiasi generazione cresciuta nel Novecento” è a loro che dovremmo guardare, perché al tempo si trattò di una vera rivoluzione, di una crescita di massa. Neanche paragonabili le opportunità di allora se confrontate con quelle di oggi. E lo stesso può dirsi a proposito delle generazioni che da quegli anni si sono susseguite: hanno sempre avuto molto di più rispetto alle precedenti, il “tutto” possibile o quasi.
Oggi è diverso, i giovani (finché dura) hanno tutto il presente ma non il futuro, e non mi sembra che l’attuale condizione possa negare questa triste verità. Anche l’affermazione che “i padri e i nonni non hanno trovato tutto facile, anzi, hanno superato prove che oggi non riusciamo neanche a immaginare” può essere opinabile: ci sono giovani precari che lavorano dodici ore o più in certe catene di distribuzione (alimentare e non) o nei call center a condizioni miserevoli per pochi miseri spiccioli (sì, perché la retribuzione oraria spesso non arriva neanche alla banconota). Ogni epoca, ovviamente, ha i suoi sacrifici.
Cazzullo non può negare l’evidenza, per cui non tarda a constatare che i nostri ragazzi hanno certamente di che piangere, perché “l’Italia li maltratta, li fa studiare male, li grava di debiti, non gli offre un lavoro, non li prepara alle difficoltà che incontreranno”, per poi aggiungere: “Viziamo troppo i nostri ragazzi”. Altra prospettiva indubbiamente interessante, che meriterebbe un’analisi più approfondita da parte dello stesso autore, quell’analisi che ci aspetteremmo dopo le prime pagine introduttive – le più interessanti – dalle quali sono tratte le citazioni finora utilizzate. Ma il punto di vista viene liquidato un po’ troppo superficialmente e si inserisce in un contesto che dovrebbe essere ampliato, e invece si sgonfia: se i ragazzi vengono viziati – ci dice Cazzullo – quando arrivano a vent’anni non hanno fame e quindi sono incapaci di sacrificarsi; per questo motivo, per i lavori manuali e meno gratificanti ci sono gli immigrati, ben disposti a spezzarsi la schiena per tentare il riscatto sociale. C’è senz’altro del vero, ma la realtà non è così semplice: nello stesso contesto, ad esempio, entra in ballo un altro problema “sociale”, la decadenza della famiglia quale istituzione di riferimento e dei suoi valori, i genitori che in qualche modo “non ci sono” e offrono ai figli surrogati di affetto e comprensione, nell’assenza totale di guide e riferimenti. Appunto, viziandoli.
Nel libro non c’è però un’analisi, un supporto concreto alle convinzioni manifestate dall’autore con quel pizzico di provocazione che incuriosisce ma che poi resta immobile ai blocchi di partenza. Infatti, dopo le prime pagine (che in fin dei conti sono meno di dieci), l’autore si butta a capofitto in una sorta di autobiografia pop infarcita di oggetti di culto, miti, eroi (soprattutto degli anni ottanta) e divagazioni sentimentali con qualche incursione nella storia (che talvolta ha vissuto personalmente da inviato). Cazzullo scrive bene, ripercorrere insieme a lui tappe e pietre miliari di una generazione unisce e scatena ricordi, ma alla fine ciò che resta è semplicemente un dubbio: ce n’era bisogno?
Nella sua incursione a “Che tempo che fa”, presenza obbligata e utilissima per promuovere un libro, Cazzullo ha esordito di fronte a Fazio nel modo più opportuno: “Il ventennio berlusconiano è stato un disastro etico, politico ed estetico”. Il boato del pubblico non si è fatto attendere, mettendo ovviamente il suo sigillo al successo del volume. Ma esistono persone stanche della solita formula ormai consolidata, che si dimostra vincente soprattutto nel demolire l’avversario per garantirsi consenso.
Per concludere, vorrei riportare la frase di una famosa giornalista fiorentina purtroppo scomparsa e (quasi) dimenticata: “Essere giornalista per me significa essere disubbidiente. Ed essere disubbidiente per me significa, tra l’altro, stare all’opposizione. Per stare all’opposizione bisogna dire la verità. E la verità è sempre il contrario di ciò che ci viene detto”.
Di disubbidienza, in questo libro, ce n’è ben poca. Perché la provocazione – se di provocazione si tratta – va poi spiegata e argomentata. I giovani e i quarantenni devono smettere di piangersi addosso, è vero. Ma questo, stando così le cose, non cambierà il loro futuro. C’è bisogno di concretezza, di riforme strutturali, di tagli e smantellamenti delle varie caste, non di paternali. Prima che sia troppo tardi.