Nel periodo estivo i giornali sono spesso a corto di articoli particolari per colmare i vuoti dovuti alla carenza di altre notizie. È così che il mio giornale mi chiese un giorno un buon articolo su un soggetto che poteva interessare tutti i nostri lettori. La consegna era niente di scientifico, piuttosto qualcosa di leggero, ma su un fondo di realtà. Mi diede carta bianca. Dato che ero appena stata a visitare il museo archeologico di Bolzano nel nord Italia dove è conservata la mummia del famoso uomo dei ghiacciai, Ötzi, decisi di dedicargli il mio articolo. Ma non volevo affatto scrivere il solito articolo di volgarizzazione su questo nostro lontano antenato giunto fino a noi per i giochi delle circostanze. Scelsi dunque la forma di un’intervista fittizia con il piccolo uomo Ötzi. Tutti conoscono senza dubbio la sua clamorosa storia. Il suo corpo mummificato fu scoperto casualmente nel 1991 da una coppia di alpinisti a 3200 metri di altitudine in un ghiacciaio delle Alpi dell’Ötztal, al confine dell’Italia con l’Austria. La sua età è stimata a più di 4500 anni fa. È ben conservato grazie al fatto di aver trovato la morte su di un ghiacciaio e di essere rimasto sepolto sotto uno strato di neve e ghiaccio. Lo scioglimento del ghiacciaio ha portato il corpo alla superficie. Alla fine il mio giornale non prese il mio articolo-intervista. Lo giudicava un po’ troppo ricercato (aveva senza dubbio ragione). Così ho tutta la libertà di proporlo qui.



Ötzi, in primo luogo vorrei domandarle se non la disturba di essere esposto in una vetrina di museo e di essere visitato tutti i giorni dal mattino alla sera da centinaia e a volte da migliaia di visitatori, come un oggetto interessante che non ha nulla a che vedere con un essere umano.
Sì, mi disturba enormemente. Nella mia nicchia di ghiaccio, lassù nella montagna, ero al riparo dagli sguardi curiosi che misurano e sezionano. Soprattutto mi ferisce la mancanza di rispetto da parte di certi adulti. I bambini invece spesso mi consolano. Il loro sguardo è diverso. Nella loro curiosità c’è come un desiderio di comprendere chi sono io veramente. Una volta un ragazzino mi ha osservato a lungo con grandi occhi stupiti, poi s’è voltato verso la mamma, le ha preso la mano e le ha domandato: “È il nonno?” E la mamma di risposta: “Sì, è un po’ tuo nonno”. Aveva ragione: appartengo alla famiglia degli uomini.



Si raccontano molte cose sul suo conto. Nessuno sa esattamente da dove viene, come viveva. Forse gli studiosi un giorno lo sapranno, forse mai. Ci può dire qualcosa di lei?
Ero il capo della mia tribù, che abitava non molto lontano dalla regione montagnosa dove è stato trovato il mio corpo. Vivevamo di agricoltura, di caccia e della raccolta di bacche selvatiche. La mia tribù contava una ventina di famiglie. In estate e in autunno gli uomini andavano a cacciare in alta montagna. Spesso si assentavano per diversi mesi. Io partecipavo di frequente alla caccia. Paragonato alla gente che vedo passare tutto l’anno davanti alla mia teca di vetro, io ero un uomo piccolo ma avevo una costituzione robusta, che era importante per affrontare il grande freddo e le intemperie in altitudine, e anche per il trasporto del bottino verso valle. In più ero un cacciatore rinomato. La vita di un cacciatore era piena di pericoli, all’epoca. 



Quasi ogni anno, l’uno o l’altro non tornava al villaggio. C’erano le cadute e le valanghe mortali. Gli orsi, gli stambecchi e i cervi erano delle prede temibili. Ma i pericoli più grandi venivano dai nostri simili. Perché altre tribù rivendicavano certe zone della montagna e tutti i cacciatori estranei che vi si avventuravano, sviati dalla nebbia o nel seguire una preda, rischiavano la vita. Gli studiosi hanno formulato numerose ipotesi sulle cause della mia morte. Infatti ero stato ferito alla spalla da una freccia, mentre seguivo uno stambecco su un tratto di ghiacciaio che si trovava in territorio nemico. Io non ho notato l’uomo che mi ha ferito, doveva tenersi nascosto abbastanza lontano da me. Non penso che la mia ferita fosse mortale, ma ho perso troppo sangue e il freddo intenso ha fatto il resto. Dopo qualche ora sono crollato nella neve per non rialzarmi più.

Aveva una moglie e dei figli?
Certamente. Avevo dieci bambini, ma due soli hanno raggiunto l’età adulta. Oggi difficilmente si può immaginare com’era dura la vita a quel tempo. Molti bambini morivano in tenera età e fra quelli che arrivavano all’età adulta, pochissimi vivevano oltre i 50 anni. Le malattie spesso non perdonavano, non c’erano medicamenti per curarle, ci si arrangiava con mezzi di fortuna, erbe soprattutto. Anche la malnutrizione decimava le famiglie, la caccia era spesso pericolosa, ogni sconfinamento era un rischio e, come ho detto, le rivalità fra i clan facevano spesso vittime. La mia compagna è morta molto giovane di una febbre contro la quale non si è potuto fare nulla. Io stesso ho avuto delle malattie, dalle quali mi sono fortunatamente rimesso, ho avuto delle fratture e numerose ferite. Quella sul ghiacciaio all’inizio dell’autunno mi è stata fatale. Avevo una quarantina d’anni.

Come si educavano i figli nella sua tribù?
I nostri genitori ci insegnavano a rispettare gli altri, ad aiutare le persone anziane e deboli della comunità, a non uccidere per uccidere, a non appropriarsi dei beni altrui, a prendersi cura del territorio. Niente affatto facile in una società dove l’istinto di sopravvivenza era spinto all’estremo. La madre e i ragazzi più grandi si occupavano dei piccoli che giovanissimi erano già iniziati ai lavori dei campi e alla sorveglianza del bestiame. A partire da una certa età, i ragazzi imparavano a lavorare il legno e il cuoio per farne oggetti casalinghi, utensili e armi e costruire e riparare le abitazioni. Imparavano anche a maneggiare le armi, soprattutto l’arco e la freccia, e il pugnale, che si utilizzava per la caccia e per difendersi dai nemici. La madre insegnava alle figlie tutto ciò che riguarda la gestione della casa, per non dimenticare la confezione degli abiti e delle calzature. Tanto più che l’abbigliamento era un elemento importante nella nostra vita esposta al clima rigido di montagna della regione. Gli abiti che indossavo al momento della mia morte, le armi e i numerosi altri reperti trovati presso il mio corpo – si possono vedere in questo museo – danno una piccola idea di ciò di cui una famiglia aveva bisogno e dunque doveva produrre per vivere e sopravvivere in questo periodo lontano della preistoria.

Lei si è posto qualche volta delle domande sull’origine e la fine della vita?

Sì, questo mi è venuto in mente spesso, perché la morte, che fa sorgere questo genere di domande, ci minacciava ogni momento. Esse mi si affacciavano ogni volta che perdevo uno dei miei famigliari. Soprattutto se si trattava di un bambino, mi domandavo quale era il senso di questa vita che non aveva avuto il tempo di svilupparsi. Non trovavo risposta e questo mi rendeva triste. E il giorno della mia morte sul ghiacciaio, quando la ferita della freccia mi ha impercettibilmente svuotato del mio sangue, ho avuto il tempo di riflettere a lungo sul mio destino. Da dove veniva la mia vita di uomo adulto che andava a terminare in questo luogo così poco accogliente? Non c’era veramente più nulla dopo la morte? Le forze misteriose che reggono l’universo, l’alternarsi del giorno e della notte e le stagioni dell’anno, che causano le tempeste, gli uragani, le alluvioni, le valanghe mortali… possono salvarmi dal nulla? Non avevo risposta. La sola cosa di cui mi ricordo come se fosse ieri è che a un certo punto è emerso in me un profondo desiderio di rinascita, che mi ha accompagnato come una piccola fiammella fino al mio ultimo respiro. Un desiderio pacificante, come se contenesse già un elemento di risposta.

Un’ultima domanda, Ötzi: che cosa ne pensa degli uomini di oggi?
Sotto certi aspetti, la differenza fra l’uomo di allora e quello di oggi è enorme, ma io vedo che l’egoismo, la brutalità, la malevolenza, la violenza che rendevano così difficile la vita nella nostra comunità millenaria, sono tuttora presenti. Ho il tempo di osservare a mio agio i numerosi visitatori che sfilano davanti alla mia nuova dimora. Anche se sono normalmente un po’ più raffinati di noi, loro lontani antenati, il comportamento di alcuni di loro, i loro sguardi, i loro atteggiamenti, le loro considerazioni al mio riguardo la dicono lunga. Ma d’altro canto mi sembra che qualcosa sia radicalmente cambiata in rapporto alla mia esperienza di uomo della preistoria. Non riesco bene a comprendere in cosa consista questa novità, ma voglio fare un esempio che mi ha molto impressionato. Recentemente, un gruppo di giovani è entrato di buon mattino nella sala dove io giaccio ormai da una quindicina d’anni. Dei giovani come tutti gli altri, abiti eleganti, pettinature alla moda, modi disinvolti. “Così è”, mi son detto. Per cui mi attendevo il peggio: curiosità malsana, considerazioni fuori luogo, risa irrispettose, tutto ciò che io detesto. Ebbene, no. Essi hanno ascoltato in silenzio un adulto che li accompagnava e che ha raccontato loro brevemente ciò che oggi si sa sulla mia storia e quella della mia tribù, poi hanno fatto tranquillamente il giro della mia teca e delle altre vetrine. Prima di andar via, l’adulto ha letto un testo che nominava una preghiera. Tutti ascoltavano con un’attenzione che mi ha profondamente colpito. Potrei fare altri esempi di questo atteggiamento stupefacentemente rispettoso, riservato, che mi commuove, di certe persone che passano qui. Tali esperienze mi aiutano molto a sopportare tanta altra gente per la quale io non sembro che un interessante oggetto archeologico o semplicemente una curiosità che bisogna assolutamente aver visto, perché la guida gli ha conferito 5 stelle.

Mille grazie, Ötzi.

(Klaartie Roegiers)