Attraverso recenti eventi culturali, sia nel teatro (con la riproposta della Celestina, sotto la regia di F. Ronconi, che accentua dell’opera gli aspetti più istintivi ma “alla moda”) sia nel cinema (con la vittoria agli Oscar de La grande bellezza), come pure in molte performances artistiche d’avanguardia, sembra tornare d’attualità una sensibilità o uno stile tipici del Barocco: la percezione di una precarietà della realtà, l’accentuazione del declino, del vuoto della esistenza o, addirittura, della morte, ma enfatizzando sempre, in queste esperienze della vita umana, la loro teatralità. E tale scenario si presenta spesso, come in quel teatro o in quel film, senza alcun sentimento di dolore, di dramma, come se, invece, ci fosse una sorta di compiacimento a descrivere il decadimento  di una società o l’avanzare in essa del deserto, del negativo.



Proviamo, allora, a tornare al mondo del Barocco attraverso l’opera che rappresenta il punto più  alto e, probabilmente, più sintetico di quella Weltanschauung. Ci riferiamo al testo di Calderón de la Barca (1600-1681) La vita è sogno (1635), per ritrovare la vera prospettiva con cui guardare in faccia il male e il dolore del mondo, l’ingiustizia e l’arroganza dell’uomo.



Opera fondamentale della cultura spagnola (paragonabile per il valore formativo alla lettura scolastica dei nostri Promessi Sposi) La vita è sogno racchiude in sé un universo di simboli, le cifre artistiche e culturali più importanti della tradizione classica cristiana e rappresenta, inoltre, una insuperabile sintesi dei temi tragici e comici dell’esistenza umana, come pure è sintesi di elementi letterari sublimi-alti e di elementi bassi-umili, che trova paragone soltanto nell’opera dell’inglese William Shakespeare. In seguito il teatro si troverà diviso a percorrere sentieri tra loro divergenti: o quello dell’illusione sublime dei classici francesi del ‘600 (come Corneille e Racine) o quelli della spontaneità comica della Commedia dell’arte italiana (anche nella sua versione dotta del francese Moliére o dell’italiano Goldoni). 



Come si desume dalla trama (che sviluppa la decisione di un re di imprigionare il figlio, avendo letto nelle stelle il suo violento destino, e poi di liberarlo per verificarne la veridicità con le conseguenze drammatiche che comporta, fino allo scioglimento finale), è possibile leggere l’opera secondo vari livelli: dal livello più semplice, letterale, indicato dalla sorte del protagonista, a quello più alto dei sentimenti che costituiscono la trama delle vicende umane: il desiderio di vendetta e il tradimento, la violenza istintiva e il desiderio del possesso, la magnanimità e il perdono, l’amore e l’adulazione, la devozione sincera dei vecchi servitori e la vita come farsa o parodia, la paura della morte in Clarino o il pregiudizio della scienza nel vecchio re.

Seguendo i temi dell’opera è altresì possibile individuare quelli che sono i punti più vivi della cultura umana e del dibattito culturale del ‘600: l’uso e l’interpretazione della scienza, il valore e l’origine del potere regale assoluto, il tema della libertà e della giustizia, il tema della ragion di stato e dell’onore, il tema della morte, del dolore e quello della cultura. È seguendo in modo troppo pedante queste suggestioni culturali che (dopo la riscoperta romantica del drammaturgo spagnolo da parte di Friedrich Schlegel) la cultura italiana del secondo Ottocento (esempio, Giosuè Carducci) ne ha ridotto l’importanza artistica e culturale, leggendo nella produzione di Calderón e in quest’opera in particolare soltanto intenti didattici e didascalici, o vuoti esercizi di retorica poetica.

Non ha tuttavia giovato alla rilettura del capolavoro l’interpretazione idealistica del Novecento, che tendeva ad assolutizzare il tema della libertà individuale, in contrapposizione ai meccanismi del potere, come fece il grande drammaturgo austriaco H.W. Hoffmansthal in La Torre (1920).

Sono allora altre coordinate, teatrali e simboliche, che rendono decifrabile il testo nella sua profondità (seguendo anche la lettura di Calderón del teologo Von Balthasar, che colloca l’opera del drammaturgo nella problematica del “Teatro del mondo”, ove l’uomo recita il suo ruolo al cospetto di Dio, cfr. Teodrammatica, pp. 146-147). Anzitutto emerge nella struttura scenica drammatica dell’opera un’importante dicotomia di luoghi: nel primo e nel terzo atto la torre e nel secondo la reggia che definiscono i luoghi della Natura e quindi della vita istintiva di Sigismondo, ed i luoghi della Cultura (che nella società rinascimentale e poi barocca aveva i suoi centri nelle corti), luoghi quindi della ragione che sa controllare e indirizzare gli istinti umani, anche attraverso la magia, l’astronomia, segni però di una cultura che ha perduto l’orizzonte unitario di riferimento. 

Si definisce in questo modo nell’opera una figura geometrica che è caratteristica della cultura barocca, l’ellisse, con la quale viene descritto il moto del sole e della terra nell’universo, con i due punti di fuga rappresentati nell’opera non dalla terra e dal sole, bensì dalla torre e dalla reggia. Proseguendo in questa rappresentazione geometrica l’ellisse può racchiudere simbolicamente altre contrapposizioni culturali operanti nella società del tempo, nell’arte (la coesistenza e contrapposizione tra ordine-linearità e fantasia-disegno), nella letteratura (tra classicismo cinquecentesco e manierismo), in economia e giurisprudenza (nel dibattito su diritto naturale e diritto divino), solo per citarne alcuni, e soprattutto la gran contrapposizione del Seicento tra scienza e fede, nella vita culturale; e tra potere assoluto e Chiesa, nella vita sociale.

Nell’opera questa dicotomia, incarnata dai due personaggi principali, Sigismondo (il figlio), colui che vive nella torre, e Basilio (re in greco e padre di Sigismondo), colui che abita nella corte, sembra irrisolvibile; anzi assistiamo nella parte centrale del dramma alla conferma delle previsioni negative degli astri sulla natura di Sigismondo.

Eppure, a una lettura più attenta del testo si vede che tutti gli elementi dell’opera sono visti attraverso la condizione del protagonista, Sigismondo, il quale sembra così rappresentare l’intero destino umano. 

Attraverso infatti le parole dei tre monologhi, che scandiscono i punti salienti di ogni atto (il primo sulla libertà, il secondo sul disinganno della vita, il terzo quello finale, sulla riscoperta della verità della vita), Calderón conduce il protagonista ad acquisire una vera coscienza di se stesso e della realtà. Attraverso il meccanismo della finzione teatrale, l’autore racchiude simbolicamente la storia della vicenda umana in questo “gran teatro del mondo” che è la vita, vissuta al cospetto di un destino più grande, al cospetto di una sapiente regia trascendente. 

Nel primo atto Sigismondo appare nella sua tensione all’infinito ergersi sulle altre creature e superare i limiti imposti alla propria libertà dalle contingenze della vita. Con parole che sembrano riprendere i dialoghi di Giobbe (Gb, 35, 10-15), Sigismondo è l’uomo incatenato alle proprie passioni e ai propri istinti, che urla al cielo la propria grandezza, la quale risiede nella sua libertà, e chiede il realizzarsi di una propria pienezza umana. Ma questa preghiera diviene bestemmia quando l’uomo pretende di rispondervi secondo la propria misura, di usare del proprio libero arbitrio secondo la propria istintività. 

È ciò che accade nel secondo atto quando Sigismondo alla reggia è violento verso quanto lo circonda, procura morte secondo un proprio piacere, si lascia dominare e guidare soltanto dalla propria superbia (ubris), non indietreggiando davanti ad alcuna autorità morale o politica, neanche il proprio padre naturale. Tuttavia, ritornato prigioniero nella grotta (questo antro scenico che ricorda la mitica caverna platonica), Sigismondo ritorna in sé, percependo l’inconsistenza della realtà (diceva Giobbe: “Come un’ombra sono i nostri giorni sulla terra”): la vida es sueño, i sogni sono i sogni, ad indicare che la vita dell’uomo è ombra, riflesso di un’altra vita più vera e più felice. 

L’esistenza umana è popolata di illusioni, desideri anche veri che hanno la stessa inconsistenza dei sogni più belli; ma qui interviene nella coscienza del protagonista un altro importante suggerimento tipico della cultura spagnola, il desengano; l’illusione della vita non chiude in un atteggiamento deluso del presente o in una romantica fuga da esso, bensì fa percepire la precarietà delle cose della vita stessa, proprio al cospetto di quel destino a cui tutto tende e a cui tutto è sospeso. 

La vita umana, perciò, non si riduce più ai contorni della propria apparenza − questa sì deluderebbe −, ma si apre a una presenza più grande, in rapporto alla quale il bene, la libertà e la giustizia acquistano il valore definitivo. 

Si apre in questo modo l’ultimo cambiamento della natura di Sigismondo, potremmo dire la vera conversione, il reale capovolgimento del punto di vista (che quasi permette di vedere terra e sole da una prospettiva superiore): Sigismondo riconoscendo una misura più grande della propria esistenza, riassume tutti i sentimenti dell’opera in un gesto impossibile all’uomo singolo: il perdono per il quale si riconcilia con Clotaldo, con Rosaura, Stella e Astolfo ed in nome del quale si inginocchia davanti al padre: un gesto di misericordia, un legame che, finalmente, non è più definito dal rapporto servo-padrone, come quando assecondava, nel secondo atto, le sue passioni, ma in quello, guadagnato attraverso il dolore del desengano, del rapporto padre e figlio.

L’uomo soltanto in questo abbraccio, in questo sentirsi amato al di là delle proprie giustizie e delle proprie bravure e capacità, è se stesso, è libero: solo ora Sigismondo può regnare, temprando il suo potere assoluto con una clemenza,che deriva dal riconoscere una dipendenza da quel cielo, da quella realtà all’inizio bestemmiata (“ogni potere si riceve in prestito, dobbiamo poi renderlo al suo padrone”).