Riccardo di York emerse come il provvisorio vincitore dalla guerra delle due rose: sterminato il casato rivale dei Lancaster, divenne re alla morte del fratello, Edoardo IV, dopo aver fatto disconoscere (e probabilmente assassinare) i due figli di lui. Fu poi sconfitto nel 1485 da un pretendente legato ai Lancaster, Henry Tudor di Richmond, il quale fondò una nuova dinastia con il nome di Enrico VII. Logico, dunque, che fosse demonizzato il più possibile dalla propaganda governativa, che ritrasse l’ultimo Yorkista come deforme e infido: così ci fu tramandato, tra gli altri, da Sir Thomas More. È difficile, naturalmente, dire dove termini la realtà storica e cominci la diffamazione pura.
Shakespeare, salito anch’egli sul treno dei Tudor, si allinea con il folklore del tempo e lo ritrae come un mostro di crudeltà, destinato alla sconfitta per mano del buon Enrico di Richmond. Trattandosi di Shakespeare, però, ovviamente, il suo Riccardo III è molto di più. In quella moltiplicazione di livelli di significato che gli è tipica, infatti, egli trasforma il suo protagonista nell’essenza stessa del Male, nell’incarnazione del mysterium iniquitatis.
Partendo da una posizione di ovvio svantaggio, Riccardo è però dotato di intelligenza machiavellica, nonché di un grande potere di seduzione, e si apre la strada con la violenza con e l’inganno, finché nulla pare resistergli. Poiché il dramma si apre con un suo soliloquio, in cui egli svela il suo cuore al pubblico, è come se egli volesse renderci suoi complici. In questo senso, però, poiché in fondo non possiamo schierarci dalla sua parte, il Riccardo III non è una vera e propria tragedia: giacché, quando egli viene infine sconfitto, non possiamo che gioire, insieme ai partigiani dei Lancaster, per il fatto che il “maledetto cane” sia morto.
Ma la freddezza del suo antagonista, cioè del futuro Enrico VII, non riesce ad avvincerci, né egli è convincente come salvatore della patria (piuttosto, il suo personaggio somiglia a una “zeppa” encomiastica che non era possibile evitare): il dramma si chiude dunque senza una vera figura eroica in cui gli spettatori riescano a identificarsi. Altra cosa sarà il Macduff che spaccia il crudele Macbeth; altra cosa sarà il buon Edgar che uccide Edmund e riporta la giustizia nel Lear.
Si può dire che il Riccardo III shakespeariano sia un studio sull’affermazione del male, del sopruso, della tirannia, dell’omicidio legalizzato, che trionfano senza incontrare ostacoli fino a quando non si infrangono contro un potere guidato dall’alto. Che fare mentre il male impera? In questo si può dire anche che l’argomento era, fin da allora, molto poco “storico” e invece più pertinente all’attualità.
Da una parte, perché il mondo elisabettiano era tutto un fiorire di intrighi e di schieramenti segreti; dall’altra, perché il male è sempre presente in mezzo a noi; perché spesso ha un aspetto seducente; e anche perché è una tentazione continua.
Guadando nel sangue, nella sua scalata verso il trono, Riccardo si avvale essenzialmente di due tipi di persone. Il primo è quello degli uomini senza scrupoli, rappresentati dal duca di Buckingham, il quale non riesce però a reggere fino in fondo, nel suo sostegno all’usurpatore, e viene per questo distrutto. L’altro tipo di persone utili al tiranno è l’individuo non malvagio in sé ma non abbastanza forte da opporglisi. Molti vengono ingannati perché non abbastanza intelligenti; altri, invece, cedono al proprio debole opportunismo, perché, in fondo, assecondare il tiranno conviene e non costa fatica. Qualcun altro ancora si scandalizza, e denuncia al pubblico l’enorme ingiustizia che si sta dispiegando sotto i suoi occhi, ma non ha il coraggio di parlare e abbassa il capo. Così il Male continua la sua opera distruttrice, soprattutto grazie ai pavidi o a chi cerca una falsa pace.
Temi universalmente validi. Come aveva detto Leonardo a cavallo tra Quattro e Cinquecento: “Chi non punisce il male comanda che lo si faccia”. Come ribadì Solženicyn nel Novecento, dopo che molta acqua fu passata sotto i ponti: “Quando scegliamo di tacere riguardo al male, … in realtà lo stiamo seminando ed esso tornerà allo scoperto moltiplicato per mille. Quando non puniamo né rimproveriamo coloro che compiono il male, non stiamo semplicemente proteggendo la loro banale vecchiaia, ma stiamo strappando le fondamenta della giustizia alle generazioni future”. Coi tempi che corrono, è bene non dimenticarlo.