Vasilij Grossman (al centro del quarto incontro del ciclo di seminari Al fondo del nulla, il soffio della vita. Viaggio nella cultura russa, a cura del Centro Culturale di Bari e coordinato da Tiziana Liuzzi) è uno scrittore nato nel 1905 e morto nel 1964, in Russia. È uno di quei casi in cui i dati anagrafici non costituiscono un elemento di secondo piano: Grossman ha attraversato in prima persona uno dei momenti più ottenebrati della storia contemporanea: dal tentativo di colpo di Stato alle persecuzioni ebraiche, dalla seconda guerra mondiale all’orrore dei gulag sovietici. Se da un lato uno scrittore non riceve certo la sua legittimazione dalla durezza del tempo che è chiamato a vivere (e a descrivere), è vero però anche che da esso ne riceve gli strumenti per una verifica più serrata. E le figure, i pensieri, i personaggi di Grossman hanno questa precisa cifra distintiva: sono passati al vaglio dell’atroce, hanno sperimentato nel proprio corpo la violenza del «secolo canelupo». E il positivo di cui Grossman si ostina a parlare non proviene da un astratto ottimismo o da un’ostinata volontà di rettitudine, ma da un’esperienza del bene che ha fatto personalmente i conti con il nulla. 



Il positivo di Grossman ha infatti la cifra di un miracolo: non perché prescinda dalla morte, ma perché proprio grazie a quella morte insorge e avviene. Il male, si può dire, “provoca” il bene: lo stana. «Hanno tolto le briglie all’odio e ne è nata la compassione», scrive nel Vecchio maestro. La crudeltà sistematica operata nel ventesimo secolo ha messo in luce, e con maggiore chiarezza, la natura dell’uomo come contrasto: alla razionalità selvaggia e inesorabile della violenza, l’uomo oppone la “divina irrazionalità” della propria libertà: «Nel bagliore dei forni, sullo spiazzo del lager, capirono tutti che la vita è più della felicità, che è anche dolore. Che la libertà non è soltanto un bene. Che è difficile, la libertà, e a volte è persino amara: è la vita». Lì dove l’ideologia tenta di stravolgere l’identità pervertendola nella legge, l’io reagisce con la propria irriducibilità: l’io si dimostra come il fatto imprescindibile per eccellenza. 



È quanto emerge in alcune pagine memorabili dedicate alla descrizione della visita alla Madonna Sistina, esposta a Mosca negli anni della guerra. Una bellezza, quella dipinta da Raffaello, «legata saldamente alla vita terrena», ma che fa sorgere una domanda: «Perché il volto della madre non tradisce paura? e perché le sue dita non stringono il corpo del suo bambino con una forza che nemmeno la morte riuscirebbe a sconfiggere? Perché non fa nulla per sottrarre il figlio al suo destino?». 

Grossman sorprende in quel Bambino dal «viso adulto», dagli «occhi tristi e gravi… che vedono e conoscono il destino», l’umano nell’uomo: quell’umano che proprio l’orrore del secolo ha saputo rendere una scoperta miracolosa, lo stesso umano che «ha continuato a esistere su tutte le croci a cui l’hanno inchiodato e in tutte le prigioni in cui lo torturavano. È rimasto nelle cave di pietra, ai cinquanta gradi sotto zero nei boschi da tagliare nella tajga, nelle trincee allagate vicino a Przemysl e Verdun. È rimasto vivo nell’esistenza monotona degli impiegati, nella miseria delle lavandaie e delle domestiche, nella loro lotta estenuante e vana con il bisogno, nella fatica spenta, senza gioia, delle operaie in fabbrica. La Madonna con il bambino è l’umano nell’umano: sta in questo la sua immortalità. La nostra epoca guarda la Madonna Sistina e vi intuisce il proprio destino». E continua: «Che cosa diremo al cospetto del tribunale del passato e del futuro, noi uomini vissuti all’epoca del nazismo? Non abbiamo giustificazioni. Diremo che non c’è stata un’epoca più dura della nostra, ma che non abbiamo lasciato morire l’umano nell’uomo. E accompagnando con lo sguardo la Madonna Sistina, continuiamo a credere che vita e libertà siano una cosa sola, e che non ci sia nulla di più sublime dell’umano nell’uomo. Che vivrà in eterno, e vincerà». 



Ma non è la questione della colpa che sta al centro del discorso di Grossman. La vera questione è invece una domanda, che scoppia ad un certo punto, nel brano sulla Madonna Sistina: «Perché siamo vivi?». Una domanda da cui non si può tornare indietro: e che proprio il dramma del vivere, invece di annichilire, solleva e incrementa: e a cui l’uomo continua a rispondere cercando, aspettando quello sguardo, come quello della Madonna di Raffaello – uno sguardo in cui l’umano dell’uomo possa dire di aver trovato un’irrevocabile vittoria, che «la vita, se anche muore, non è comunque sconfitta».