LIPSIA – Sia in Germania che in Italia (cfr. Corriere della Sera, 14 marzo 2014), con una certa dipendenza dal giudizio dai giornali tedeschi, è stata commentata l’uscita delle 1300 pagine dei cosiddetti quaderni neri (1931-1941) di Martin Heidegger. 

Non bisogna aver meditato in profondità l’opus magnum di Enrst Nolte sulla guerra civile europea, tradotta anche in italiano da Francesco Coppellotti, che esplora in profondità i rapporti tra nazionalsocialismo e bolscevismo (Ernst Nolte, Der europäische Bürgerkrieg. 1917-1945, Francoforte/Berlino 1989), per capire che il giudizio sintetico di Jürgen Kaube (Frankfurter Allgemeine Zeitung), da cui dipende quasi completamente il giudizio di Ranieri Polese sul Corriere della Sera secondo il quale Heidegger è un nazista ed un antisemita, serve per comprendere la questione di cui parliamo come il bere un bicchiere di acqua quando si soffre di un forte mal di testa. 



La critica alla tecnica come destino dell’occidente, che porta Heidegger a ritrarsi quasi completamente dal discorso pubblico (a parte l’intervista al direttore dello Spiegel Rudolf Augstein), per vivere e pensare nella Foresta Nera, non è da considerare come una sciocchezza: essa è in realtà un tentativo di pensare il problema del vivere con una “mediazione antica” legittima e desiderabile se si pensano ai sensi unici dello sfruttamento della natura, che non è più un “soggiogare” la terra (Gen 1, 28), ma un distruggerla. 



Hans Urs von Balthasar dedica al filosofo tedesco uno dei capitoli de Lo spazio della metafisica (Gloria III, 2) proprio usando il termine di “mediazione antica”. In questo capitolo si trovano ancora due importanti capitoli, quello su Friedrich Hölderlin e quello su Johann Wolfgang Goethe. Nei tre autori c’è stato un tentativo di fermare il treno in corsa del destino europeo, che può essere riassunto nel senso della riduzione dell’essere in “tecnica”. Il giudizio di Balthasar su Heidegger è in fine una critica radicale. Il guadagno che si ottiene nella riflessione heideggeriana sulla struttura formale del problema dell’essere viene fondamentalmente perso. Il problema non è tanto l’incidente storico dei giudizi che si possono leggere nei quaderni, ma che il campione della domanda metafisica ed ontologica abbia sostituito Dio che dona l’essere con una ipostatizzazione dell’essere stesso, quindi con la pseudo personalizzazione di un astrazione. 



In questo modo le “astrazioni” a livello storico sono solo una conseguenza dell’impostazione ontologica. Quello che manca in Heidegger, pur nella grandezza della sua intuizione, è un senso sia per l’esistenza storica (un’altra categoria importante della riflessione storica di Ernst Nolte) sia un senso dell’essere creato. Heidegger, insieme a Tommaso d’Aquino, sa bene che l’atto dell’essere finito non è sussistente. Tommaso in De Potentia 1.1 dice che l’essere finito è “aliquid simplex et completum, sed non subistens”. Semplice e completo come regalare una rosa all’amata, ma non sussistente perché gli amanti lo sono, non il dono. Balthasar si chiede con ragione: “come può un atto dell’essere non sussistente far sorgere degli esseri sussistenti?” (Gloria III, 2, edizione tedesca, 783). 

Ecco, qui sta il vero problema di Heidegger: l’essere finito come atto non sussistente, quindi non “tecnico”, viene deificato o ipostatizzato e nella critica formale ontologica si perde ogni senso sia per l’essere sussistente che è Dio, come colui che dona gratuitamente l’essere, ma anche per il senso della storia e del suo evolversi. Heidegger è deluso dai nazisti, perché non hanno realizzato quello che lui voleva: un nuovo ritorno all’antica mediazione, che Heidegger vedeva incarnata nella gente contadina della Foresta Nera. La delusione consiste nel vedere il nazismo come un ulteriore fenomeno della modernità, cioè dello strapotere della tecnica. Heidegger ha tradito completamente la sua eredità cattolica, la quale solamente gli avrebbe permesso una una “legittimazione critica della modernità” (Massimo Borghesi, Augusto del Noce. La legittimazione critica della modernità, Genova/Milano, 2011), che sa vedere anche il vantaggio della tecnica, senza diventarne succube ed una riflessione adeguata sull’essere come dono (Ferdinand Ulrich, Homo Abyssus. Das Wagnis der Seinsfrage, Einsiedeln 1961/Friburgo 1998), che permette di comprendere che solamente nella differenza tra l’essere finito e quello infinito, viene salvato il mistero dell’uomo, quindi anche quello dei contadini della Foresta Nera. Non l’essere gettati nella realtà (Heidegger) ma la caratteristica centrale di non assolutezza dell’essere finito permette di vedere la tragicità e drammaticità dell’esistenza dell’uomo, con quella fine sensibilità che ha permesso al grande pensatore cattolico ed amico di von Balthasar, Ferdinand Ulrich, di riflettere su quel “niente” che è l’essere finito − un niente che non ha nulla a che fare con il nichilismo, ma con il mistero della gratuità dell’amore, che il linguaggio rivela, quando ad un grazie si risponde con un “di niente”. 

Solo questo amore gratuito permette all’uomo, anche nell’impotenza che credo si provi in un campo di concentramento, di vedere ancora un’ultima luce!  Questa in realtà è stata riflessa non da Heidegger, ma dai grandi martiri del nazionalsocialismo: Dietrich Bonhoeffer, Karl Leisner, Bernhard Lichtenberg, Hans e Sophie Scholl.