“Profondo è il pozzo del passato” scriveva Thomas Mann nelle prime righe delle storie di Giacobbe, e ogni generazione ritorna ad esso per comprendere il proprio presente, la responsabilità cui si è chiamati.
La Grande Guerra è sicuramente un tornante che ha costituito l’identità dei popoli europei e le vicende che drammaticamente hanno segnato il destino politico del Novecento, “il secolo breve” come lo ha definito Hobsbawm, iniziato con la Rivoluzione russa e concluso con la caduta del Muro di Berlino. Il ciclo organizzato dal Centro Culturale di Milano vuole fare memoria di quelle figure e di quelle parole, di quella attesa inquieta, di quegli ideali che mobilitarono in tutta Europa milioni di giovani. Proprio tale tratto è emerso con forza anche nel commovente intervento-video della scrittrice di origine armena Antonia Arslan la sera del 17 marzo nel dialogo con Uberto Motta, docente di letteratura italiana nell’Università di Friburgo (Svizzera), conversando sui due grandi poeti soldato, Clemente Rebora e Giuseppe Ungaretti. Chi poteva, e può oggi, rispondere a quella inquietudine, a quell’ansia di impegno destata dalla realtà? Sui fronti tragici della guerra, in questo “Calvario” d’Italia, il cuore di quei poeti ritrovò l’eterno.
Quale uomo entra nel 1914 e quale uomo ne esce? Attese speranza, inevase. Forse nasce in modo nuovo e strutturato un grido?
Direi che è proprio così. I testi che abbiamo ascoltato ci hanno proprio fatto toccare con mano come la generazione dei ventenni e trentenni che si affaccia nel 1914 alla guerra porta con sé un carico di euforia, di desiderio, di tensione, ma che cela come al suo interno il rovello del vuoto, il bisogno di una identità che la nuova situazione culturale italiana ed europea dei decenni precedenti aveva reso molto forte. Tale per cui la guerra può sembrare una soluzione, può sembrare l’espressione di un dovere, di una difesa della patria, la ricerca di un senso. Esce una generazione apparentemente sconfitta perché ha visto naufragare i propri ideali e i propri sogni ma per questo esce una generazione più ricca nella misura in cui, più povera, è stata provocata a ritornare sull’essenziale, a ritornare cioè su quali possano essere le risposte a un grido che si è fatto radicale. Il desiderio che si tramuta in grido e allora scopre che a questa interrogazione la risposta non è più circoscrivibile dentro un universo semplicemente immanente.
Ma qual è la forza che muove la poesia dopo un’esperienza del dolore? È solamente cultura?
Direi proprio di no, forse autori come Rebora e Ungaretti ce lo fanno sentire con palpabile evidenza: la poesia non è cultura, la poesia è bisogno. Così come l’uomo ha bisogno di bere o di mangiare ha bisogno di una parola vera; parola poetica e parola vera sono da intendersi come assolutamente sinonimi. La poesia quando è tale è sempre verità. Ungaretti diceva: poesia è il mondo, l’umanità, la propria vita, fioriti dalla parola; e l’immagine del fiore è quella che serve a Ungaretti per dire che soltanto filtrata dagli occhi del poeta la realtà dischiude quella bellezza che ha sempre in sé. Il poeta non aggiunge niente, fa soltanto vedere.
Giovani che vanno volontari alla prima guerra mondiale, entusiasti di dare anche la vita. La domanda che sorge è: come arrivano Ungaretti – uomo che cercava un riscatto, una patria, una terra perduta, una terra promessa – e questa generazione al conflitto mondiale?
Tra Ungaretti e Rebora la differenza anagrafica è minima: Rebora è nato nel 1885 e Ungaretti tre anni dopo, ma i percorsi esistenziali sono completamente differenti, per cui sarebbe sbagliato dire che i due arrivano allo stesso modo. Quel che li accomuna è da un lato una sensazione di euforia, entusiasmo, tensione, ribollimento interiore a cui si accompagna il rodimento del vuoto, come se questa energia, questo sistema di pulsioni che in fondo sono tipici dell’età che va dai venti ai trent’anni non trovassero una ragione. È per questo allora che la guerra, dall’esterno, in anticipo, può apparire alle grandi schiere di interventisti come una ragione. Ungaretti, che si accinge alla guerra si autodefinisce «grumo di sogni». È impressionante nella sua icastica bellezza questa immagine con cui entra nel conflitto; definisce la propria divisa una culla, qualche cosa che a mia conoscenza non ha analoghi nelle letterature di ogni epoca. La divisa, strumento dell’offesa, della violenza, del dolore come l’oggetto, talismano che consente il recupero di quella maternità e paternità perduti da quella generazione e che soltanto consentono all’individuo di sentirsi a casa; questo manca a questa generazione: una casa. La parola patria e la parola popolo circoscrivono questa dimensione, questo spazio che è quello che accomuna una drammatica autoillusione, che ci si aspettava di poter trovare in quel conflitto. Soprattutto in Ungaretti, ma anche in Rebora vi è la spinta, il sentimento, il desiderio di fare il proprio dovere nella difesa di una patria che si voleva difendere proprio per rivendicare in primo luogo a se stessi il bisogno di una tradizione. Abbiamo sentito dire dal primissimo Ungaretti: qui la meta è partire.
Penso agli anni giovanili di Rebora, alla sua tesi su Leopardi, la sua ricerca di un linguaggio attraverso cui esprimere questa profonda inquietudine. La guerra diventa sia per Rebora sia per Ungaretti un modo per ritrovare la parola. Cosa nasce di nuovo a livello poetico? Non è un problema estetico, è un problema quasi metafisico, è un ritrovare il canto, la memoria…?
Mi piace molto questa domanda, salto una riflessione di tipo linguistico-stilistico… Non so se si faccia caso quanto alta sia la densità di verbi nella poesia di Rebora, mentre sono quasi completamente assenti in quella di Ungaretti. È il sintomo che denuncia una posizione completamente diversa. Il verbo è lo strumento attraverso cui Rebora rappresenta una tensione che passa attraverso le cose, la vita, i giorni. Quella di Ungaretti è una poesia tutta illuminata dal singolo istante. Arrivando al punto: che cosa è la parola poetica? C’è una poesia molto famosa che le cito subito, che conclude la sezione Il Porto sepolto. Si intitola Commiato ed è la risposta alla domanda che mi ha posto: «Gentile / Ettore Serra / poesia è il mondo l’umanità / la propria vita». Poesia è tutto, è in tutto quello che ci circonda, è in tutto quello che siamo e di cui siamo fatti, ma è decisivo come prosegue: «poesia è il mondo l’umanità / la propria vita / fioriti dalla parola».
Ungaretti gioca sulla immagine del verbo, participio passato, quindi un verbo in funzione di aggettivo e della preposizione articolata. La parola, non una qualsiasi, ma quella che soltanto i poeti sanno trovare, possiede il potere religioso di far fiorire la vita. Mi è stato chiesto tante volte se esista tra questa scoperta e l’esperienza della guerra un rapporto deterministico. Evidentemente di fronte a quesiti del genere non esistono risposte. Ci sarebbe arrivato lo stesso? Chi lo sa! Ma non importa, quel che conta è l’immagine decisiva che Ungaretti consegna a tutta la civiltà, non solo letteraria ma umana, del suo tempo e dei tempi che sono poi venuti intorno alla preziosità, al bisogno che l’uomo ha di una parola poetica − ma qui poetica vuol dire semplicemente vera, che possieda il magico tocco di rivelarci la poesia, cioè la sostanza autentica che è quella del mondo e di noi −. Vi faccio un esempio: ci siamo alzati tutti stamattina, abbiamo tutti vissuto un mattino. Quanti lo hanno pensato nella sua parola poetica, come ce lo restituisce la parola di Ungaretti: «Mi illumino / di immenso»? Questo è il mattino di un poeta e per questo la parola di un poeta è necessaria al nostro vivere più di tante altre cose.
Il mistero che trasfigura il nulla, il deserto della vita priva di senso. Motta ricordava come la poesia di Ungaretti riscopre “il mondo, l’ umanità, la propria vita” e diviene così espressione di tanti giovani, molti dei quali vittime dei totalitarismi incombenti in Europa.
Osservando vicende attuali, nei margini della vita, le periferie esistenziali come nei confini di vecchi imperi, si può misurare una simile drammaticità, “chiuso fra cose mortali (anche il cielo stellato finirà) perché bramo Dio?”. Di questo scenario, attraverso i testi di Junger e Gadda, letti da Popolizio, dialogheranno Luca Doninelli e Paolo Mieli lunedì 24 marzo al Centro San Fedele di Milano, due protagonisti che hanno profetizzato l’avvento, dal soldato sul fronte della guerra alla costruzione dell’uomo massa, dell’operaio anonimo delle società totalitarie, l’individuo “senza qualità” dei lager come dei gulag.
(Gian Corrado Peluso)