L’incontro con i grandi testimoni della cultura del passato, quando è aperto e veramente disponibile, riserva sempre il dono di sorprese inaspettate. Mi è capitato di trovarne una stupefacente conferma raccogliendo materiali sulla fortuna di Claudel e sul messaggio della sua arte come eredità viva per l’uomo moderno. La sorpresa si lega a un giudizio storico folgorante, condensato in poche righe genialmente sintetiche, con le quali Claudel racchiude una visione di vastissimo respiro nella densità di una griglia di metafore definitorie, tese a catturare l’essenziale.
Si tratta di un passaggio, certamente poco noto, contenuto in una vecchia intervista data alle stampe nel 1929, nel quinto volume di una serie miscellanea di colloqui con i maggiori esponenti della scena culturale francese, curati da Frédéric Lefèvre (Une heure avec…, Gallimard, 1929, p. 115; lo cita Dominique Millet-Gérard nella sua versione per Ad Solem di Ginevra, 2002, della post-fazione di Hans Urs von Balthasar alla Scarpetta di raso, apparsa per la prima volta dieci anni più tardi, nel 1939).
“Io considero il Rinascimento una delle epoche più gloriose del cattolicesimo, quella in cui il Vangelo porta a termine le sue conquiste dello spazio e del tempo, in cui la Chiesa, attaccata in un angolo angusto dagli eretici, si difende aprendosi all’universo e in cui gli umanisti ritrovano l’Antichità mentre Vasco de Gama ritrova l’Asia, Cristoforo Colombo vede un mondo nuovo scaturire per lui dal fondo delle acque, Copernico spalanca la Bibbia del cielo, don Giovanni d’Austria respinge l’Islam, il Protestantesimo è bloccato alla Montagna Bianca e Michelangelo innalza la cupola di San Pietro“.
Claudel è una stella di prima grandezza nella cultura cristiana del primo Novecento. Non c’è nessun bisogno di dilungarsi per sottolineare il rilievo fuori dal comune della sua figura. Egli è stato un attento osservatore del suo tempo, valente autore di poesia, di teatro e di prosa, in contatto con alcuni degli intellettuali e le personalità religiose più in vista dell’epoca che lo ha visto protagonista del mondo internazionale delle lettere. Il suo rapporto con uno dei maestri della nuova teologia rifondata su base patristica e intimamente ecclesiale, Hans Urs von Balthasar, si è colorato dei contorni dell’amicizia personale. Un altro esponente di punta del rilancio creativo del pensiero della tradizione cristiana, Henri de Lubac, ha trovato in lui un ispiratore continuamente ripreso e commentato: lo documenta in modo suggestivo il volume dello stesso de Lubac sui due “poeti teologi di statura eccezionale“, Claudel e Péguy, portato a termine e pubblicato postumo con l’aiuto di Jean Bastaire, nel 2008 (ora tradotto in lingua italiana per i tipi di Marcianum Press, 2013).
La visione storica di Claudel, riassunta nel brano che abbiamo riportato, è di una nettezza tale da non richiedere postille di commento: o la si accoglie come ipotesi interessante di lavoro, o la si respinge in blocco per un pregiudizio di sospetto preventivo.
Che cosa ci insegna, se la si ricolloca nel contesto in cui è stata formulata? Mi sembra sia un indizio inequivocabile del fatto che ai vertici della cultura di ispirazione cristiana già nei primi decenni del Novecento era diffusa una percezione dello sviluppo della civiltà dell’Occidente che non si lasciava rinchiudere negli schemi della degenerazione distruttiva. Per alcune delle menti più lucide allenate a riflettere, davanti alle crisi drammatiche aperte dalla tragedia della Grande Guerra e dall’esplosione dei totalitarismi, sui contenuti della fede messi a contatto con il destino dell’uomo contemporaneo, la storia del secondo millennio cristiano non era riducibile solo a una progressiva caduta verso il basso. Non si poteva più pensare che era esistito, all’inizio, lo splendore di una cristianità compatta, capillare e totalmente dispiegata, corrosa dalla lacerazione interna del primo risveglio della modernità e poi inesorabilmente travolta da uno spirito critico portatore esclusivo di scetticismo materialista, di divaricazioni devastanti tra il sacro e il profano, paladino aggressivo della secolarizzazione destinata a svelare il volto demoniaco del potere del mercato e della legge dello Stato sulla carne viva del libero organizzarsi dell’autonomia del corpo sociale cristiano.
La sostanza religiosa della costruzione della civiltà del Medioevo non poteva assolutamente essere negata o disprezzata, come avevano fatto i cultori del pensiero laico antitradizionalista, soprattutto dal Settecento in poi, seguiti nella loro scia polemica dagli apologeti di una filosofia dell’uomo e di una scienza “positiva”, svincolate dai loro limiti razionali ed elevate a nuova “religione” atea dell’uomo-Prometeo, in nome delle “magnifiche sorti e progressive” del trionfo delle nuove utopie.
Ma si cominciava ormai a capire, mettendo sempre meglio a fuoco cosa era realmente successo, che il Medioevo non aveva bisogno di essere contrapposto a quanto dalla civiltà medievale aveva tratto origine e alimento, conducendo l’uomo e la società figli del primo millennio a lanciarsi sui sentieri di quello che per noi è diventata la fioritura della modernità. L’amore per il Medioevo andava distinto dal medievalismo chiuso e nostalgico di chi rifiutava ogni positività alla lunga storia del mondo moderno, perché di questo vedeva solo storture e contraddizioni e sognava di oltrepassarle ritornando all’indietro verso una sorta di Paradiso perduto.
Il problema, ancora oggi, è riuscire ad andare oltre l’idea della frattura e del tradimento. Il realismo, desideroso di abbracciare tutti i fattori del paesaggio che si è disegnato nell’età di collegamento tra Medioevo e prima modernità, impone di passare alla visione di un processo di crescita, di uno sviluppo organico dentro la vita di un organismo complesso: crescita e sviluppo a volte tumultuosi, che potevano certamente introdurre disordini e squilibri, ma che hanno anche fatto maturare potenzialità prima inespresse, hanno dilatato gli orizzonti, mettendo arditamente a profitto le conquiste rese possibile da un cristianesimo innestato come lievito nella pasta dell’umile storia collettiva degli uomini. Una certa idea di ragione.
L’alleanza di un cielo capace di dialogare con gli umori profondi della terra. Il gusto dell’impresa, l’amore per l’universo creato, lo slancio di andare incontro al mondo per renderlo sempre più bello e più ospitale. La dignità dell’uomo. La dignità della donna. Il valore della famiglia, del lavoro. La virtù della politica al servizio ostinato e difficile del bene comune. La distinzione dell’ordine di Cesare e dell’ordine di Dio. Cristo salvezza e giustizia per tutti, dal principe sovrano al più povero suddito chiamato a reggere il peso della pubblica felicità. Senza queste spinte profonde che hanno trascinato il lento modellarsi del sistema del vivere nel mondo cristiano, in mezzo a tanti fallimenti, a tante frenate e tanti voltafaccia, non ci sarebbe stato lo sprigionamento delle forze che ci hanno resi quello che siamo, nel bene e nel male che questo ha comportato. Non ci sarebbe stato avanzamento, ma solo la fredda stagnazione di un mondo bloccato: la continua, sterile, ripetizione dell’identico.
Certo bisogna intendersi bene sul significato delle parole che usiamo: nella prospettiva dell’intervista di Claudel, il Rinascimento lascia andare in frantumi la maschera caricaturale dell’Anti-Medioevo che i nemici della sintesi tra fede cristiana e mondo della prima modernità gli hanno cucito addosso. Per Claudel, il Rinascimento è la continuità di un Medioevo reso più giovane e moderno. È un Medioevo in cui “i valori spirituali vengono esaltati con l’allargamento planetario del mondo e l’esplosione missionaria che si inaugura” (D. Millet-Gérard), travasandosi dai suoi fondamenti non rinnegati fin nel cuore della pirotecnica civiltà barocca.
L'”umanesimo” che allora si riorganizza non può essere visto come un umanesimo di rottura. È un umanesimo, sì, in parte nuovo, ma di radice ultimamente cristiana, che viene “ri-centrato” e cresce su di sé, come ha scritto stupendamente, diversi anni dopo Claudel, uno dei suoi grandi ammiratori, cioè il teologo von Balthasar che già abbiamo menzionato. La sintonia è impressionante. Ammonisce von Balthasar: l'”umanesimo, che viene per lo più interpretato in maniera errata – si noti! – come trapasso dal mondo cristiano medievale a un individualismo della persona libera e a una scoperta del mondo come cosmo naturale, non si situa essenzialmente, dal punto di vista storico, in questa contrapposizione, ma è primariamente una tappa del ri-centramento del cosmo sull’uomo” (La domanda di Dio dell’uomo contemporaneo, 1956, trad. it. Queriniana, Brescia 2013, p. 38; seguono esemplificazioni con riferimento a Petrarca, ai capolavori di Leonardo, di Dürer, di Michelangelo, che tutto producono tranne che emancipare la natura dalla religione).
A conferma della validità di questo approccio pienamente storico alla comprensione della genesi dell’Occidente cristiano, per cercarlo di capirlo dall’interno, possiamo solo aggiungere che il rifiuto del risentimento antimoderno viene di fatto a incrociarsi con una delle tendenze più robuste della scienza del passato coltivata dai professionisti del sapere accademico, lungo una via che dagli storici “costituzionali”, alla Brunner, porta fino alle aperture di coloro che sono stati i seguaci più innovativi della scuola francese delle Annales. La sfida che ci consegna è la stessa esibita dal titolo, provocatorio, dell’ultimo saggio di Jacques Le Goff: Faut-il vraiment découper l’histoire en tranches? (Seuil, Parigi 2014). È proprio necessario fare a pezzi l’unità della nostra storia?