Quando pensiamo che la popolazione di Facebook è la terza al mondo dopo la Cina e l’India, comprendiamo subito che stiamo parlando di un universo multiculturale, multietnico e di diversità che non ha eguali al mondo. Se ci facciamo guidare dalle statistiche (fonti 2013, US Census Bureau e rivista Limes) possiamo imbatterci in dati come questi: la Cina è il paese con più utenti Internet con oltre 568 milioni di persone, seguita dagli Stati Uniti (oltre 254 milioni) e India (oltre 205 milioni).
Tra i Paesi europei guida la Germania (settimo posto con oltre 68 milioni di utenti). L’Italia è diciottesima con oltre 35 milioni. Se poi parliamo della situazione in termini di maggiore percentuale di diffusione nazionale di Internet, il ranking è guidato dalle Isole Falkland con una copertura del 96,9% seguita da Islanda, Norvegia, Svezia e Olanda. L’Italia è al 68° posto con una percentuale del 58%.
Quando è cominciato tutto questo? Era il 1962 quando il Rand, think tank militare americano, aveva iniziato a discutere la possibilità di difesa delle comunicazioni in caso di attacco nucleare. Da quel punto in avanti, inizia una progressione che porta nel 1969 alla messa on line di Arpanet, nel 1971 alla creazione del protocollo FTP, nel 1972 alla nascita della email, nel 1983 a Internet e via dicendo. Nel 1996 già 45 milioni di persone usavano Internet. Nel 2011 diventano 2 miliardi e 400 milioni.
Ma adesso è venuto anche il momento di chiederci quali sono le implicazioni di questo scenario in termini di diritti. In queste settimane è salita agli onori della cronaca la vicenda degli chef italiani che si sono opposti ai giudizi “anonimi” e immotivati che gli utenti possono esprimere attraverso Trip Advisor. Che cosa non va secondo i “maestri” della cucina? Che dietro l’anonimato dell’utente, si celino giudizi tardivi, immotivati, non documentati e spesso non pertinenti, talvolta falsi. Gli chef chiedono trasparenza e un confronto corretto e alla pari. Da qui l’alleanza con Trip Advisor. Questo è uno dei risvolti di Internet. Uno dei tanti.
Del resto però in un rapporto Onu del 2011 si legge che “essendo Internet diventato uno strumento indispensabile per rendere effettivo un gran numero di diritti fondamentali, per combattere la diseguaglianza e per accelerare lo sviluppo e il progresso civile, la garanzia di un accesso universale a Internet deve rappresentare una priorità per tutti gli Stati”. Ma ci sono degli effetti collaterali da considerare.
Oggi vorremmo affrontarne uno, lasciandoci guidare da Stefano Rodotà. Quello del diritto all’oblio, sancito dall’art. 16 del Regolamento sulla protezione dei dati personali della Commissione europea, del 25 gennaio 2012.
“Che cosa diviene la vita – si chiede Rodotà in Il mondo nella rete edito da Laterza – nel tempo in cui Google ricorda sempre? L’implacabile memoria collettiva di Internet, dove l’accumularsi d’ogni nostra traccia ci rende prigionieri d’un passato destinato a non passare mai, sfida la costruzione della personalità libera dal peso d’ogni ricordo, impone un continuo scrutinio sociale da parte di una infinita schiera di persone che possono facilmente conoscere le informazioni sugli altri. Nasce da qui il bisogno di difese adeguate, che prende la forma della richiesta di diritti nuovi, il diritto all’oblio, il diritto di non sapere, di non essere ‘tracciato’, di ‘rendere silenzioso’ il chip grazie al quale si raccolgono i dati personali“. Ecco emergere, con forza, il tema della memoria. Del diritto a poter ricominciare, senza avere un fardello da portare sempre con sé.
“Liberarsi dall’oppressione dei ricordi, da un passato che continua a ipotecare pesantemente il presente – argomenta Rodotà – diviene un traguardo di libertà. Il diritto all’oblio si presenta come diritto a governare la propria memoria, per restituire a ciascuno la possibilità di reinventarsi, di costruire personalità e identità affrancandosi dalla tirannia di gabbie nelle quali una memoria onnipresente e totale vuole rinchiudere tutti. Il passato non può essere trasformato in una condanna che esclude ogni riscatto“.
Da Internet, come sempre, emerge l’uomo. Con le sue passioni, le sue virtù, le sue debolezze, il suo diritto a sbagliare e a riprovarci. A ricominciare da capo. Ma non finisce qui. Perché se l’individuo ha diritto all’oblio, allora che ne è della Storia? “Il punto chiave – chiarisce Stefano Rodotà – sta nel rapporto tra memoria individuale e memoria sociale. Può il diritto della persona di chiedere la cancellazione di alcuni dati trasformarsi in un diritto all’autorappresentazione, alla riscrittura stessa della storia, con l’eliminazione di tutto quel che contrasta con l’immagine che la persona vuol dare si sé? Così il diritto all’oblio può pericolosamente inclinare verso la falsificazione della realtà e divenire strumento per limitare il diritto all’informazione, la libera ricerca storica, la necessaria trasparenza che deve accompagnare in primo luogo l’attività politica. Il diritto all’oblio contro verità e democrazia?… Internet deve imparare a dimenticare, si è detto, anche per sfuggire al destino del Funes di Borges, condannato a ricordare tutto. La via di una memoria sociale selettiva, legata al rispetto dei fondamentali diritti della persona, può indirizzarci verso l’equilibrio necessario nel tempo della grande trasformazione tecnologica“.
Una bella sfida, senza dubbio. Ma dobbiamo affrontarla. Per l’Uomo. Per la Storia.