Composto da Stravinskij nel 1910 e rappresentato a Parigi il 13 giugno del 1911 ad opera dei Balletti Russi di Diaghilev, con l’interpretazione di Nijinski e la coreografia di Fokine, Petruska (balletto in quattro quadri) sembra sintetizzare quello che emerge come il tratto più essenziale e decisivo della cultura russa fra Otto e Novecento: l’affermazione dell’io come risposta al tentativo di annichilimento del potere. La trama di Petruska, semplice e potente come sanno esserlo solo le favole, ricorda in certi aspetti quella del nostro Pinocchio: un burattino (Petruska, appunto), proprietà di un Ciarlatano che si esibisce durante le feste di piazza del martedì grasso a San Pietroburgo, si innamora di una ballerina e, a causa dell’amore per lei, subisce la violenza dell’ottuso Moro, venendone malmenato e distrutto. Ma ad essere distrutta è soltanto la sua forma di burattino – la frattura della maschera fa emergere il volto vero e nascosto di Petruska, che rivendica una vita autonoma e libera: viva. 



È molto difficile, e forse anche inutile, cercare di rendere in parole una forma d’arte come il balletto: tanta è la grazia, l’apparente semplicità di un segno espressivo che sbalordisce per quant’è netto e puro, che tradurlo in concetti può sembrare quasi una forzatura. Ma è proprio in questa difficoltà – in una sfasatura fra l’intenzione nei confronti della realtà e la realtà stessa – che sta la grandezza e la peculiarità di Petruska. Questo balletto di Stravinskij infatti, più di ogni altro viene descritto da una inafferrabilità della vita, da un fatto che sorge come reazione e come imprevisto rispetto a un tentativo, tanto naturale quanto violento, di chiudere la questione. Petruska non sfugge infatti alla caratteristica che accomuna tutta la letteratura russa, e cioè un rapporto oppositivo col potere che si realizza in una prepotente affermazione dell’io. Anche Petruska – come le opere di Dostoevskij, di Tolstoj, di Pasternak, di Grossman – è la storia di una lotta. 



Da una parte il Ciarlatano – l’uomo che ha professionalizzato la finzione, il personaggio che sempre sottintende che tutto è falso – e il Moro: l’individuo appagato, forte, di una solidità che gli viene dall’essere senza domande e senza pretese, pienamente appagato nell’essere quel che è e nell’avere quel che ha. Dall’altra, Petruska: burattino come gli altri, ma attraversato da una nostalgia che ne è la salvezza e la trasformazione – una tristezza, un desiderio di essere vivo che gli fornisce un’identità. E qui, in quest’opera, essere vivi equivale ad essere veri. 



Ma dalla parte di Petruska c’è anche il personaggio della Ballerina. Non si tratta solo di un espediente narrativo o di un astratto simbolo di leggerezza e di grazia: la bellezza della Ballerina è innanzitutto un evento. Un evento che permette alla vita impenetrabile, burattinesca di Petruska di essere sfondata, di farvi passare la luce di un desiderio che il finale, quasi come un trionfo beffardo, non mancherà di esaudire. 

E conta poco che la Ballerina non sia consapevole di ciò che essa stessa provoca: essa, tuttavia, esiste – e la sua vita è miracolosa, perché è una vita che genera altra vita; una vita da cui altra vita si accende. Ed è forse anche in questa piccola, muta, splendida figura di Ballerina che si sintetizza l’anelito di tutta la cultura russa fra Otto e Novecento: non solo in una grande e tragica ambizione storica, non solo in un gesto dell’io che, minacciato dal potere, riafferma se stesso, ma – soprattto – nella speranza di un miracolo che torni a far bruciare nel cuore il desiderio di essere vivi.

Il balletto “Petrouchka” di Igor Stravinsky è stato al centro dell’ultimo incontro del ciclo di seminari Al fondo del nulla, il soffio della vita: viaggio nella cultura russa, a cura di Tiziana Liuzzi e del Centro Culturale di Bari. Gli articoli di Fabrizio Sinisi: