«Sono nata nel 1910 nel fuoco della rivoluzione. Sono nata affetta da spina bifida e mia madre non ha potuto allattarmi». Potrebbe essere il biglietto da visita di Frida Kahlo, all’anagrafe Magdalena Carmen Frieda Kahlo y Calderón, una donna messicana che ha precorso i tempi, nel suo look, nel comportamento disinibito, nella pittura. In realtà Frida Kahlo, nasce nel 1907 da genitore tedesco, luterano, ebreo e ungherese di origine, e da madre messicana, benestante, di origini spagnole e amerinde.
Rivela fin da subito un carattere indipendente e volitivo, da pasionaria, ma il suo destino sarà segnato per sempre da un fatto terribile. Il 17 settembre del 1925, a 17 anni, l’autobus che la stava riportando a casa, in compagnia di un ragazzo del quale era innamorata (Alejandro), venne letteralmente schiacciato contro un muro a causa dello scontro con un tram. Frida riportò terribili conseguenze: 11 fratture, fra le quali la colonna vertebrale spezzata in tre punti. Un corrimano dell’autobus le trapassò il fianco e la sua vita rimase appesa a un filo. Subì 32 interventi chirurgici e fu costretta per anni a rimanere in un letto, a casa. Fu qui che iniziò a dipingere cercando di indagare nel suo volto le ragioni di un destino tanto avverso. I genitori fornirono di specchio il baldacchino del suo letto, affinché Frida potesse guardarsi e dipingersi.
Questo fu la sua forza ma anche il suo dramma. A differenza di Gaudì, che nella malattia fu spinto a guardare fuori di sé, verso l’universo misterioso della creazione, Frida fece convergere lo sguardo su se stessa, sulla grandezza ma anche la fragilità della dimensione umana.
Tuttavia la tenacia e la forza di carattere di questa donna (la prima latinoamericana alla quale gli Usa dedicheranno un francobollo), le ottennero di riprendere una vita normale. Ricominciò a camminare, sopportando per tutta la vita dolori agli arti, aderì al Partito Comunista diventando una delle maggiori attiviste, e, infine s’innamorò del celebre artista Diego Rivera che sposò, a prezzo di una tormentata storia d’amore. Le ferite dovute ai continui tradimenti del marito la spinsero a diventare, a sua volta, trasgressiva nell’amore, collezionando amanti d’ambo i sessi (come Lev Trockij, rivoluzionario russo; André Breton, poeta che la lanciò nel circolo dei surrealisti d’Europa; Tina Modotti, militante comunista e fotografa). Morì di polmonite bronchiale il 13 luglio 1954 a 47 anni.
La mostra di Roma (Scuderie del Quirinale, 20 marzo-31 agosto 2014, a cura di Helga Prignitz-Poda) ripercorre la vicenda di Frida, lasciando emergere la sua impressionante attualità. Numerosi gli autoritratti presenti, dai quali si evince l’ossessione narcisistica di Frida che, nello studio del proprio volto, cela il disperato bisogno di una identità chiara, di un amore totalizzante come la vita, forse, le aveva negato.
Impressiona il suo Autoritratto con collana di spine e colibrì del 1940: la drammatica presa delle spine sul collo (luogo delle tensioni ansiose e degli attacchi di panico) racconta tutto quello che in quell’anno Frida aveva passato. Nel 1939 il marito Diego la lasciò a causa di una relazione con la sorella, Cristine Kahlo. L’anno dopo Diego decise di tornare e i due si risposarono a san Francisco. Rimarrà una relazione inquieta e, in questo ritratto, il tema religioso della coronazione di spine diventa per Frida l’emblema del suo cuore ferito costantemente prigioniero (il colibrì) di un amore infelice. Alle spalle della donna una scimmia (le uniche figlie che l’artista poté permettersi poiché non riuscì mai ad avere bambini a causa dello stato di salute) e un felino aggressivo, simbolo della crudeltà degli eventi che caratterizzarono la sua esistenza.
Come mai tanta attenzione da parte della critica per un’artista dall’arte così inquietante? Un’attenzione, del resto, che è andata crescendo solo negli ultimi anni. Certo la cocente domanda di senso che emerge dalle opere di Frida è di grande attualità. A chi, accostandola a Dalì o a Magritte, la voleva incasellare dentro la grande corrente surrealista ella rispondeva: «Pensavano che anche io fossi una surrealista, ma non lo sono mai stata. Ho sempre dipinto la mia realtà, non i miei sogni».
Sì, la realtà cruda di Frida è la stessa che vediamo noi, aprendo quotidianamente giornali e tv. Un’angosciosa realtà vista però attraverso un impulso viscerale. In ogni singola pennellata la Kahlo attinge i suoi colori dal cuore (lei stessa lo afferma nell’Autoritratto con ritratto del Dr. Farill, 1951) e si abbandona con implacabile realismo a ciò che in esso vi scopre. «Yo pinto mi propia realidad….Yo pinto lo que pasa por mi cabeza sin ninguna otra consideración». Certo siamo lontani dal surrealismo ancora, tutto sommato, speranzoso di Magritte. Siamo persino lontani dal delirio di Dalì. Qui c’è il dramma di un’anima che anela a grandi ideali e che, credendo di averli trovati nell’ideologia comunista abbracciata con adesione totale, non incontra risposte adeguate al suo dolore, alle sue pulsioni contraddittorie. «He pintado mis cuadros bien, no rápidamente pero pacientemente y llevan un mensaje de dolor».
Frida è una domanda aperta, un dito puntato verso un Cielo lontano. È una donna che ha voluto rompere con le convenzioni ma che ha rotto, di fatto, con la sua femminilità. Una donna che ha saputo ricostruire il suo corpo devastato, ma non ha potuto ricostruire la sua interiorità. Una donna assetata di bellezza e di amore ma che non ha dato a questa bellezza e a questo amore un nome eterno. Tuttavia c’è più senso religioso in lei che in tanti laicisti moderni; c’è più desiderio buono nella sua arte che in tanta arte intellettuale di sinistra che ormai impera nelle Biennali di Venezia.
Un raggio di luce balena, nell’ultima ora di questa donna quarantasettenne: «Spero che l’uscita sia gioiosa – dice – e spero di non tornare mai più». E invece ritorna, ritorna a Roma e nelle grandi città europee con molte significative opere e notevole dispendio economico. Ci si augura che l’attenzione a quest’artista non sia legata semplicemente alle sue tendenze saffiche, ma alla qualità della sua domanda. Allora la sua arte potrà davvero gridare quel desiderio di eternità che l’ha generata: «No estoy enferma… estoy rota… pero estoy feliz de estar viva mientras pueda pintar».