Prima guerra mondiale, fronte francese. Una bettola circondata da morte e fango, straripante di soldati abbruttiti. I volti con rughe profonde come piaghe. Una ragazza bionda sale sul palco. È un'”unna”, viene dalla terra del nemico. È bellissima, ma disfatta dalle lacrime. I soldati berciano. Fischiano. Sono lupi. La ragazza fatica a intonare, poi inizia, struggente. La melodia si slancia e come la più sorprendente delle alchimie, scioglie il cuore dei soldati. Anche i loro occhi si velano di lacrime: potere della bellezza che per un attimo sospende la bestialità, potere della nostalgia, che toglie le maschere agli uomini facendoli tornare bambini e invitandoli a sognare una vita autentica, lontano dalla signoria della mitragliatrice e del filo spinato.



È questa l’ultima celebre scena di Orizzonti di gloria (1957) uno dei primi capolavori di Stanley Kubrick (1928-1999, allora era al quarto film), che a 57 anni dalla sua realizzazione resiste nella sua vertiginosa accusa contro il delirio della guerra.

Quest’anno ricorrono i cento anni della prima guerra mondiale, l’evento storico su cui si dice siano stati scritti in assoluto più libri, come insegnava in un semiclandestino seminario di storia militare il mio professore di Storia moderna all’Università Statale di Milano (semiclandestino perché in Italia, a dispetto del mondo anglosassone, la storia militare è ancora vista come una sorta di divertissement con bandierine e soldatini, una riserva per incalliti militaristi).



Ancora oggi Orizzonti di gloria, questa pellicola di circa 80 minuti dagli intensi bianco e nero, può servire per rileggere quel conflitto che estirpò dieci milioni di vite umane, per approfondirlo, anche se in fondo resterà impossibile comprenderlo, per spiegare ai ragazzi cosa volesse dire mandare le fanterie all’attacco sotto il fuoco delle armi automatiche, l’inadeguatezza dei vertici militari di fronte alle nuove esigenze della tattica, lo sprezzo per la vita della truppa, gli esiti spettrali degli ordini senza senso. Un film che fece scalpore all’uscita e che in Francia restò bloccato dalla censura addirittura sino al 1975. 



C’è però qualcosa di grandioso e di urgente in questa narrazione, che resta attuale, nonostante i progressi della cinematografia sulla “realtà” del campo di battaglia (Salvate il soldato Ryan e dintorni), così diversa dalla retorica dell’oraziano Dulce et decorum est pro patria mori già condannato dal war poet Wilfred Owen (tragicamente morto una settimana prima della fine del conflitto…). 

Orizzonti di gloria ha la perentorietà e l’interrogazione di una tragedia greca. Kubrick indaga la paura della morte (splendido il cammeo in cui due soldati s’interrogano se sia meglio morire colpiti da una baionetta o da un colpo d’arma da fuoco o la scena della vigilia dell’esecuzione), come la necessità della pietas, anche in un pianeta senza morale qual è la waste land tra le due trincee. 

La cornice della narrazione è essenziale. Prende spunto da un fatto vero (la vicenda del 336º Reggimento di fanteria e dello spietato generale Géraud Réveilhac) e dal romanzo omonimo di Humphrey Cobb. 

C’è una posizione inespugnabile da conquistare: il “formicaio”. Ci sono i comandi dall’alto (e dallo sfarzo di un castello settecentesco) che impongono l’attacco: in giornata di sole, in campo aperto, con ridotta copertura d’artiglieria. C’è il mattatoio, la ritirata e poi la vendetta dei Comandi per giustificare l’insuccesso dell’offensiva: un processo con il verdetto precompilato dalla corte marziale. Tre innocenti sono scelti per pagare per tutti. Su di loro l’infamante (e falsa) accusa di vigliaccheria di fronte al nemico. 

La tragedia di Kubrick s’impenna durante la scena del processo, quando il colonnello Dax (un memorabile Kirk Douglas) diventa un padre per le vittime prescelte, raggiungendo il climax nella lunghissima scena dell’esecuzione, in cui anche lo spettatore di oggi invoca un deus ex machina che possa salvare i tre uomini dal plotone di fucilazione. Ma non ci saranno interventi dall’alto e non ci sarà pietà neppure per il valoroso soldato Arnaud, ferito alla testa e fucilato su una barella. 

Kubrick, sempre maestro nel sondare il processo di alienazione della macchina bellica (chi non ricorda l’addestramento di “Palla di lardo” in Full Metal Jacket?), stigmatizza il comandante insensibile (il generale Mireau interpretato da George Macready) che non riconosce le ferite dei soldati (“lo shock da esplosione non esiste”), che percorre la trincea con l’ossessivo binomio di domande: “Sei pronto a uccidere altri tedeschi? Sei sposato?” ed è capace di orientare l’artiglieria contro i propri soldati; ma soprattutto fa giganteggiare il colonnello Dax che sfida la corte marziale per cercare di ristabilire la verità e rinuncia a una facile promozione per non venir meno ai propri principi. 

1914-2014. Un centenario importante, per il nostro presente senza memoria. Chissà che Orizzonti di gloria non motivi anche la riflessione personale. Ci sono altre trincee e reticolati, immateriali come le ramificazioni del pensiero unico e omologato.

Ps. La canzone della scena finale del film è un canto popolare tedesco (L’Ussaro fedele). A rimanerne estasiato fu anche Kubrick che scelse per moglie la giovane cantante.