Caro direttore,
al centro della relazione, “Il Vangelo della famiglia”, con cui il cardinale Walter Kasper ha aperto il 20 febbraio i lavori del Concistoro straordinario sulla famiglia c’è la possibilità, chiaramente auspicata per le decisioni finali spettanti al Sinodo e al Papa, che un penitenziere possa dichiarare eucaristicamente risanato un divorzio.



Con parole più semplici, che la riammissione al sacramento eucaristico sia affidata alla strada dei sacramenti della misericordia e della penitenza, e non più alla via giudiziaria e alla sua casistica. Cioè, per quanto questo possa essere esercitato con sensibilità e attenzione, non più al giudizio dei tribunali ecclesiastici (istituto storico e non iure divino), ma alla discrezione, alla capacità di discernimento, di un sacerdote con esperienza spirituale e pastorale, che guardi negli occhi la vita e la fede del cristiano che gli si rivolge. 



Questa proposta di Kasper non è certamente una via lassista all’ammissione del divorzio nella vita della Chiesa, o una rinuncia all’indissolubilità del matrimonio cristiano, ma un approccio ragionevole – “non irragionevole”, con solidi agganci nella tradizione della Chiesa – a gestire la dissolubilità, anche nel matrimonio cristiano, della “sola carne” come “comunità di vita che include sesso, eros, nonché amicizia umana” (Kasper), che in prospettiva cristiana dovrebbe essere il matrimonio. 

È chiaro però che la via della misericordia di Dio una via larga. Una via certo su cui può non passare nessuno, se non vuole; ma se ci s’incammina è una via che possono percorrere tutti. La cruna dell’ago non è nel cuore di Dio, ma nel cuore dell’uomo. In questo senso è una via, per chi è abituato a battere le vie umane, a saper prima quanti ci possono passare, quanti carri e quanti pesi può sopportare, che può fare spavento. Ma qui non c’è niente da fare. Questo è il cuore di Cristo, troppo largo per noi. Sta a noi decidere se per quel cuore siamo nessuno, o uno. Per Lui siamo, possiamo essere tutti. 



Penso perciò che questa proposta di Kasper, avanzata “in sintonia con Papa Francesco” per permettere a tutti i divorziati risposati, il che non significa in massa, il passaggio dalla comunione spirituale alla comunione sacramentale nella vita della Chiesa, senza passare per i tribunali ecclesiastici – ci possa ricordare di “non avere paura”.   

Per questo alla domanda di Kasper, se sia percorribile, nella questione dell’ammissione ai sacramenti dei divorziati risposati “al di là del rigorismo e del lassismo, la via della conversione, che sfocia nel sacramento della misericordia, il sacramento della penitenza” – con la serenità dell’inconsapevolezza, forse, di chi non è né teologo né storico della Chiesa, riteniamo si possa rispondere tranquillamente: sì. 

Anche riprendendo l’invito di Ratzinger e Kasper, al di là di controversi riferimenti a interpretazioni storiche, o a repliche di soluzioni della Chiesa dei primordi nella nostra situazione che è completamente diversa, quel che possiamo sensatamente fare è riprendere i concetti di base della nostra fede, anche alla luce della sua esperienza storica, realizzandoli “al presente, nella maniera che è giusta ed equa alla luce del Vangelo” (Kasper). 

Ora questa luce è certamente in Matteo 19, 3-12. Luce dura per un cuore indurito che guarda solo ai rischi degli obblighi del precetto evangelico, il divieto di ripudio che contraddice la legge mosaica  (“Se questa è la condizione dell’uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi”). Ma ben più dolce, se si guarda alle potenzialità esistenziali del suo invito a cercare nella fede la perfezione della grazia alla disposizione già divina della natura creaturale dell’essere fatti l’uno per l’altro dell’uomo e della donna ai fini della propria pienezza esistenziale, in cui è centrale la genitorialità. E grazia è qui il consapevole impegno del cuore, che viene dalla fede, per le proprie decisioni che impegnano sé e un altro, il coniuge, e gli altri che ne vengono, i figli. 

Nel suo nocciolo perenne, l’invito evangelico mi sembra qui non sciogliere “ciò che era in principio” – l’amore reciproco generativo che dà avvio alla famiglia, nelle ovvie diverse modalità storiche con cui questo avviene – a cuor leggero, con il cuore di chi “si è fatto eunuco per il regno dei cieli”. Questo impegno interiore, e interiore alla coppia cristiana (e per estensione di ogni coppia, “creati maschio e femmina” perché “siano una sola carne”), non ha bisogno di angeli fiammeggianti con la spada in pugno del giudizio, a giudicarne il fallimento − a questo bastano già spesso le dure repliche della vita; ma ha bisogno di una comunità, di una chiesa domestica per i cristiani, che lo aiuti e lo sorregga. Gli angeli fiammeggianti sono più utili all’esterno della coppia, e non solo a quella cristiana, a tutelarla da motivi di divisione dall’esterno di chi si è fatto “una sola carne”, o che dall’esterno vi penetrino e vi generino disunione. 

Leggerei così, oggi, “quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi”: quello che Dio ha congiunto nel cuore di due che in scienza e coscienza si sono fatti una sola carne. Ma quando questa grazia venga meno dall’interno della coppia, quando l’amore dei coniugi, tra i coniugi viene meno, in una crisi morale della coppia spesso portata sulle spalle da uno solo dei coniugi, lasciato dall’amore dell’altro, che senso ha chiudere la porta a che la grazia possa bussare di nuovo a una vita di coppia, anche se è un’altra coppia?