Una riflessione sull’ultimo fatto di cronaca che vede coinvolta una donna, assassinata dal proprio marito, a Catania. Finora le informazioni in nostro possesso sono scarse, l’uomo è piantonato in ospedale in stato di coma. Dopo aver ucciso sua moglie si è sdraiato sul letto e ha ingerito un’ingente dose di psicofarmaci. Pare che da tempo temesse per la propria vita, temesse di morire, ma non si sa se fosse in cura presso uno specialista per avere supporto. Questa paura gli faceva fare avanti e indietro con il pronto soccorso dell’ospedale Vittorio Emanuele. Probabilmente affetto da delirio persecutorio.



A detta delle persone sentite sembrava una coppia normale, senza problemi apparenti. Spesso è così, dall’esterno non si vede niente, a volte si fatica anche a riconoscerne i sintomi tra le pareti domestiche. E’ un momento, si dice, passerà. Chi non è mai stato triste, demotivato o deconcentrato? Nessuno la vuole neanche pensare, quella parola. Depressione. A un certo punto ci si spegne, ci vuole un po’ di tempo per accorgersene. Si fa fatica ad alzarsi dal letto, a trovare un perché. Perché devo uscire? Perché devo lavorare? Mangiare? Per carità. Pian piano la luce si spegne. Quello è il punto di non ritorno, il punto nel quale non si è più in grado di chiedere aiuto.



Le statistiche parlano di 121 milioni di individui depressi nel mondo, 850mila muoiono a causa di una grave depressione, le donne ne soffrono più degli uomini. In Italia l’11,2% della popolazione ne sarebbe afflitta e sembra che non risparmi neanche i bambini e gli adolescenti. Comunque non si può generalizzare, è una patologia con mille sfaccettature. Non sempre i depressi rivolgono su di sé l’impellenza a farla finita. Spesso coinvolgono il partner, i figli, i congiunti. Se non c’è speranza per loro, non ce n’è per nessun altro. Gli omicidi suicidi non sono una novità per le cronache.



Non sempre e non tutti conoscono il problema che li investe, in alcuni casi c’è ancora qualche resistenza a farsi curare perché rivolgersi allo psichiatra non sta bene. Lo psichiatra cura i pazzi. Ricordo ancora come illuminante una conversazione con una signora colta, plurilaureata e al passo con i tempi che definiva le donne che cercavano aiuto in quel senso delle “donnette” incapaci di risolvere i propri problemi, bruciate dalla modernità.

Poco importa se poi ho scoperto che la signora in questione alzasse il gomito per risolvere i suoi di problemi. Noi donne abbiamo un momento particolare in cui siamo più esposte, il post partum, in cui tra l’8% e il 12% si ammala di depressione.  

Anche qui le cronache sono generose di madri che uccidono i propri figli, madri forse contornate da mamme, suocere, padri e mariti ma sole a combattere quel senso di vuoto e inadeguatezza che prende all’improvviso, incapaci di essere felici in ogni momento, come vuole il falso mito della maternità. Non c’è un perché all’orrore della giovane madre che annega i due figli piccolissimi e poi tenta il suicidio.

E’ notizia di questi giorni che Ian Thorpe, prodigio australiano del nuoto, stella già a 14 anni, rischia di perdere un braccio per un’infezione. Lo stesso Thorpe, che nella sua autobiografia aveva ammesso il suo male di vivere, l’alcol, le droghe, l’impossibilità di collocarsi come individuo nonostante fosse un esempio agli occhi del mondo.

C’è una differenza tra Thorpe che pensa al suicidio e il disoccupato depresso che si butta sotto al treno? Una domanda provocatoria, ovviamente, ma entrambi sono guidati dalla stessa consapevolezza che non c’è più speranza, che il buio si è infittito e nessuno li ha aiutati a riaccendere la luce.