Emanuele Macaluso ha compiuto 90 anni il primo giorno di questa primavera 2014. Anche se non ha partecipato all’Assemblea costituente, si può definire uno degli ultimi padri viventi della Repubblica. Da quando si è conclusa la vicenda del Pci, si è progressivamente staccato dalla politica attiva per dedicarsi alla coltivazione della memoria, all’autobiografia, alla riflessione sulla politica. Comunisti e riformisti. La via italiana al socialismo (uscito per i tipi di Feltrinelli alla fine del 2013) è l’ultima fatica di Macaluso. La tesi del libro è che Palmiro (nacque nella Domenica delle Palme, il 26 marzo 1893) Togliatti, a partire dalla svolta di Salerno dei primi di aprile del 1944, avrebbe sempre espresso posizioni comuniste, sì, ma non rivoluzionarie e antisistema, bensì riformiste, cui rimase fedele fino alla morte, avvenuta a Yalta il 21 agosto 1964. 



E la doppiezza, tradizionalmente imputata al leader e al suo partito? Non si tratterebbe di doppiezza di Togliatti e del Pci, ma piuttosto nel Pci, una parte rilevante del quale avrebbe fatto fatica ad accettare la linea togliattiana. Della quale, peraltro, sarebbe stato creativo, ma non infedele interprete lo stesso Enrico Berlinguer.



Il fondamento teorico e storico dell’attribuzione di una linea riformista al leader è quello della cosiddetta “svolta di Salerno”. Togliatti sbarca a Napoli sotto il falso nome di Ercoli, dopo essere passato dal Cairo e da Algeri, il 27 marzo 1944. Il 3 marzo aveva avuto un incontro di congedo con Stalin, nel corso del quale il leader sovietico aveva raccomandato a Togliatti di entrare in un governo di unità nazionale, senza porre la pregiudiziale repubblicana. Intanto, si veniva delineando la strategia internazionale dell’Urss, che sarebbe stata formalizzata a Yalta (4-11 febbraio 1945) e a Potsdam (17 luglio-2 agosto 1945), in vista della divisione del Nord del mondo in due blocchi. 



Fu nel corso della lotta di liberazione che la strategia di Togliatti si chiarì. Di fronte a un Pci fortemente tentato di trasformare la Resistenza in una lotta di classe e di presa del potere, Togliatti ne sottolineò il carattere prevalentemente nazionale. Dopo Yalta, fu chiaro che il Pci si sarebbe dovuto muovere all’interno del blocco occidentale. Chi aveva tentato di uscirne, come il movimento partigiano greco organizzato nell’Elas (Ellinikós Laïkós Apeleftherotikós Stratós, Esercito popolare greco di liberazione), si era infilato nel vicolo cieco di una guerra civile sanguinosa, alla fine della quale era stato sconfitto, dopo aver causato 500mila morti, un decimo della popolazione greca dell’epoca.

Perciò Togliatti aveva detto molto chiaramente nel corso dei lavori dell’Assemblea costituente – Macaluso cita i verbali della seduta del 25 ottobre 1946 – “noi non rivendichiamo una Costituzione socialista… non è il compito che sta oggi davanti alla Nazione”. A quello che poco dopo definirà “partigianesimo” e ai tanti che volevano “fare come in Russia” Togliatti impone con la forza del proprio prestigio di leader dell’Internazionale comunista – benché sciolta formalmente da Stalin nel 1943 – la piena accettazione della democrazia liberale, come ambito all’interno del quale perseguire “una profonda trasformazione sociale”. Non si tratta di una rinuncia al “socialismo”, il quale però è posto come realizzabile solo per via democratica. 

Era esattamente la scelta che aveva fatto la socialdemocrazia tedesca settant’anni prima. Togliatti si manteneva comunista, perché teneva aperta l’idea di una società “altra” rispetto a quella capitalistica e perciò restava ancorato al “legame di ferro con l’Urss”, unica garanzia reale di apertura ad “altro” e unico bastione contro la vittoria planetaria del capitalismo americano. Al tempo stesso, tuttavia, prendeva atto che conquistare il potere in Italia con gli stessi metodi di Lenin era del tutto irrealistico. Perciò, per un verso riprendeva tutta l’elaborazione di Gramsci, sepolta negli inediti Quaderni del carcere, volta a tracciare la lunga marcia per la conquista dell’egemonia nella società italiana; per l’altro verso, si dichiarava sinceramente fedele ai principi e alle istituzioni democratiche, quali egli veniva progettando insieme alla Dc e al Psi. 

La risultante di questo compromesso tra comunismo e democrazia era stata depositata dal Migliore nei concetti di “democrazia progressiva” e di “riforme di struttura”. La “democrazia progressiva” finiva per rappresentare un buon compromesso tra quell’ala del partito, facente capo a Pietro Secchia, che avrebbe voluto andare per le spicce in nome di una trasformazione socialista rapida della società, e chi, Togliatti per primo, riteneva di essere realmente incapsulato nel blocco occidentale, che mai avrebbe consentito il ricorso alla violenza armata. Lasciava aperta la porta al comunismo, ma l’appuntamento era rinviato a quando fossero esistite le condizioni per quelle mitiche “riforme di struttura”, la cui realizzazione avrebbe reso irreversibili le trasformazioni economico-sociali. 

In altri termini, si usava la scala della democrazia per salire ai piani alti e poi la si gettava via. Era il modello di democrazia popolare alla cecoslovacca: maggioranza parlamentare e poi avanti con le “riforme di struttura”, che avevano reso irreversibile la direzione di marcia. Quanto al compromesso con le forze fondamentali della politica italiana – che era ciò che contava – la “democrazia progressiva” garantiva che il Pci avrebbe accettato le regole del gioco democratico, mentre sul terreno delle politiche economiche e sociali c’erano sostanziali ambiti di convergenza con la Dc, soprattutto in versione fanfaniana, sia nell’uso dello Stato a fini produttivi, redistributivi e assistenziali sia nella concezione del sistema dei partiti quale architrave della Repubblica dei partiti. 

Macaluso ripercorre tutta la vicenda del dibattito interno del Pci, soffermandosi particolarmente sulla figura di Enrico Berlinguer. Il quale è profondamente togliattiano nella strategia. Il compromesso storico infatti è un distillato di togliattismo: la rottura con il Pcus è tutta culturale, ma non politico-pratica, perché Berlinguer non mette in discussione il ruolo geopolitico dell’Urss quale baluardo oggettivo contro il capitalismo, che tende a diventare mondiale. Pur non condividendo il modello di sviluppo, è convinto che dal punto di vista dello sviluppo delle forze produttive – che per un marxista è la prova del nove − l’Unione sovietica sia sulla strada giusta. Restano problemi relativi alle libertà e ai diritti? Basta solo aspettare. Tutto ciò affermato nel XVI congresso del Pci, 1983. Le cause di tanta cecità, a sei anni dalla caduta del comunismo, risiedono sempre nel presupposto profondo che l’Urss, comunque, rappresenti una possibilità “verso una società altra”, almeno nel senso che con la propria esistenza impedisce la vittoria totale e incondizionata del capitalismo. 

E qui sorgono le domande da rivolgere a Macaluso. È sufficiente aver accettato da parte del Pci le regole del gioco liberal-democratico perché lo si possa definire riformista? Che cosa intende Macaluso per riformismo? L’impressione è che sia rimasto fermo al vecchio dibattito degli inizi del Novecento tra socialdemocratici e comunisti, quando la differenza non riguardava i fini – il socialismo, cioè la statalizzazione dei mezzi di produzione – ma i mezzi: la via parlamentare per i socialdemocratici, la dittatura del proletariato per i comunisti. Basta a definire riformisti i comunisti, solo perché hanno rinunciato sinceramente alla dittatura del proletariato? 

A questo punto l’incidente probatorio richiede che Macaluso dica cosa intende per “socialismo”. È la vecchia statalizzazione/socializzazione di mezzi di produzione? O è, più semplicemente, una politica dell’eguaglianza? Se così fosse, allora la domanda radicale che si pone per la definizione moderna del riformismo nella sinistra è la seguente: è l’eguaglianza il valore fondativo o è la libertà? Macaluso sembra ritenere che alla sinistra tocchi l’eguaglianza, come suggeriva Norberto Bobbio, e alla destra la libertà. Eppure, la sinistra è nata nella chiesetta puritana di Putney nel 1647 all’insegna delle libertà: i nuovi ceti borghesi si preparavano a lottare contro l’aristocrazia fondiaria e il clero, ad essa alleato, in nome delle libertà. Si trattava di una sinistra liberale. È lungo questo asse che scoppiò la Rivoluzione francese. Nel 1848 il Manifesto di Marx ha cambiato l’assetto della costellazione di valori della Rivoluzione francese, ponendo al centro l’eguaglianza. Su questa base si sono sviluppati il movimento operaio, le rivoluzioni comuniste, il welfare. 

Oggi, di fronte al fallimento del comunismo e agli sconvolgimenti tecno-scientifici e produttivi della terza rivoluzione industriale, sembra riproporsi, come all’inizio delle rivoluzioni borghesi, il tema dell’individuo e delle sue libertà. Si generano nuove disuguaglianze, che richiedono un’egualitaria distribuzione di libertà. “Libertà uguale”, scriveva Carlo Rosselli già negli anni Trenta. Questo parrebbe dover essere il nuovo stenogramma ideologico del riformismo di sinistra. Il cosiddetto “socialismo” non significa più fuoriuscita dal capitalismo − il quale, osserva ironicamente Giorgio Ruffolo, “ha i secoli contati” − bensì lotta sociale, culturale e politica qui e ora per far crescere la capacità di autodeterminazione delle persone, insomma la capacità di libertà. Il socialismo non è più l’approdo provvidenziale e finalistico della storia umana, secondo l’escatologia laica di Marx; non è più “cieli nuovi e nuova terra”, “l’Altro” della storia degli uomini. È, più modestamente, la lotta per la fioritura umana. 

E forse è proprio il rifiuto dell’orizzonte escatologico del comunismo il problema di tutta la vecchia generazione comunista. Forse Macaluso non si riconosce in questo scenario. Ma è anche l’unico modo per spiegare il giudizio impietoso contenuto nell’intervista al sussidiario, in cui si accusa Renzi di non avere più davanti nessun orizzonte di cambiamento del presente. La vecchia generazione comunista vede la storia umana come un cantiere per grandi progetti; l’attuale non più comunista pratica il bricolage

Ma forse questo è l’atteggiamento più realistico e più vero. Forse questo è il moderno riformismo di una sinistra riformata.