1. «Aprile è il mese più crudele», lo sappiamo tutti, lo sanno pure i sassi, a partire almeno da quell’ottobre del 1922 in cui Eliot pubblicò sul Criterion la versione definitiva del Waste Land, quel «Paese guasto» che noi italiani siamo abituati a conoscere con il titolo La terra desolata

«Aprile è il mese più crudele», allora, perché «genera/ lillà dalla terra morta, mescola/ memoria e desiderio, eccita/ molli radici con uno scroscio di pioggia» (T.S. Eliot, The Waste Land, I 1-4). Crudele perché non fa come l’inverno, quell’inverno che «ci ha tenuti al caldo, coprendo/ la terra con una neve di dimenticanza, nutrendo/ una vita misera con tuberi secchi» (I 5-7). No, aprile è crudele, perché non ha nevi di dimenticanza ad accompagnarlo, ma un’insana, folle e inattesa brama di vivere. 



E tanto più si sente la vita, la propria natura, diceva san Tommaso, tanto più si annusa il terrifico odore della morte. Un odore così acre, così pungente e penetrante che senza delle reali radici cui aggrapparsi, paralizza, fa brancolare sulle opposte rive dell’agitazione ansiosa e dell’inazione disperata. I personaggi del Waste Land mostrano tutti questa ambivalenza, come il narratore del primo canto, per esempio, che ci chiede di quali radici possiamo giovarci tra le macerie che viviamo: «Quali radici aggrappano, che rami crescono/ su queste macerie? Figlio dell’uomo,/ non puoi né dirlo né immaginarlo, perché sai solo/ un mucchio di immagini frante» (I 19-22). Un mucchio di immagini senza nesso (sarà detto più avanti dalle Figlie del Tamigi: «I can connect/ Nothing with nothing»; III 300-301) che più s’accumulano, più fanno emergere il sudore perlaceo sul collo, quel terrore che ci prende quando, in un secondo di riposo, ci assale il brivido del non-senso, il terrore senza oggetto dell’assenza di significato: «(Venite all’ombra di questa roccia rossa)/ e vi mostrerò qualcosa d’altro/ dall’ombra che al mattino vi striscia alle spalle/ o dall’ombra che la sera vi si leva incontro:/ vi mostrerò il terrore in un pugno di polvere» (i 26-30).



Sono figure dell’irrealtà, di un mondo che sentiamo e bramiamo come vero e materiale, ma che ci ritroviamo spesso a vivere come se fosse invece privo di evidenze, privo di cogenze che ci costringano, che ci leghino: «Città irreale/ sotto la nebbia bruna di un’alba d’inverno/ una folla scorreva su London Bridge, così tanti/ ch’io non avrei mai creduto che morte tanta ne avesse disfatta» (I 60-63). 

2. Ma se la figura del mondo può apparire come irreale, come non significante, ci sono ragioni del sangue – ben prima che della fede: il Waste Land è scritto da un Eliot ancora non credente – che urlano il contrario: per questo aprile è crudele, perché non fa come l’inverno, non ci aiuta a tacerle, ci costringe a guardarle e a guardare con esse il terrore che possa non esserci risposta. E se non c’è risposta, ma il sangue la grida, il sangue stesso la tenterà come può e come sa, spesso cercando di ricreare l’inverno, di rintanarsi in un ordine più o meno quieto, più o meno stantio, come la «lady» del secondo canto, tutta presa dal terrore che il suo mondo dorato crolli: «“Che devo fare adesso? Che farò?/ Correrò fuori così come sono, per strada/ coi capelli sciolti, così. Che faremo domani?/ Che mai faremo?”» (II 131-134).



Sull’opposta riva, ma dello stesso segno, il lasciarsi agire meccanicamente dallo scorrere dei momenti, come il narratore veggente Tiresia mostra nell’episodio della dattilografa e dell’impiegatuccio. Lei che rientra a casa all’ora del tè e sbarazza il tavolo ancora sporco dal mattino; lui – «uno del basso, cui la sicumera veste/ come un cilindro a un villano arricchito» (III 231-232) – che «eccitato e deciso muove all’attacco» con le sue «mani esploratrici», mani che «non incontrano difesa» (III 239-240) ma che nemmeno sono desiderate, se è vero che alla fine dell’amplesso lei, rimasta sola dopo il «bacio paternalistico» con cui lui la saluta (III 247), a malapena si accorge che tutto è finito, anzi che qualcosa è accaduto: «Si volge e si guarda un momento nello specchio/ a malapena accorta che lui non c’è più./ Il suo cervello permette il formarsi di un mezzo pensiero:/ “Bene, adesso è fatta. E non pensiamoci più”» (III 249-252).

3. Al tempo in cui scrive The Waste Land, Eliot già ben conosce il terrore di cui parla, il crollo costante di ogni tentativo della ragione di figurarsi un ordine definitivo – compiuto, perfetto – tra le macerie polverose del mondo. L’ha visto nell’insufficienza dei suoi studi filosofici, nell’insufficienza dei suoi interessi per le religioni orientali, e probabilmente già pre-sente – lo dirà solo decenni dopo nei Quartetti – che «la poesia non è la risposta». Ma proprio questo affondo nel vuoto, nell’orrore, nel tremore dei nervi che sembrano ingabbiati in un dolore senza oggetto, è ciò che gli permette di non abdicare. E quel che avverrà alla sua ragione, alla sua vita, è prefigurato da ciò che accade in questo poemetto. Perché a un tratto, dallo squallore, emerge la voce del mondo: così forte, così vera da costringere i personaggi ad alzare lo sguardo. 

Ed è singolare che ad alzare lo sguardo siano due pellegrini, due personaggi – ricalcati sull’apparizione ad Emmaus – che, diversamente da tutti gli altri non sono fermi ma sono per via, e che perciò possono, anzi debbono, guardare avanti e intuire, un po’ sorpresi un po’ smarriti, una presenza altra, un «terzo»: «Chi è il terzo che sempre ti cammina affianco?/ Se conto, ci siamo soltanto io e te insieme/ ma quando guardo avanti la strada bianca/ c’è sempre un altro che ti cammina affianco» (v 359-362). L’accorgersi del terzo restituisce ai pellegrini il mondo e la vita in forma di domanda. Ecco allora chiedersi che cosa sia «quel suono alto nell’aria/ mormorio di lamento materno» (V 366-367), o chi siano quelle «orde incappucciate che sciamano/ per pianure infinite, incespicando nella terra spaccata» (v 368-369), fino all’esplodere, nel finale, della voce del tuono, con la domanda suprema: «Datta: Che cosa abbiamo dato?/ Amico, sangue che scuoti il cuore/ l’audacia terribile di un istante di abbandono/ che un’era di prudenza non potrà ritrattare…/ Per questo, soltanto per questo noi siamo esistiti,/ che non troveremo nei nostri necrologi/ o sulle lapidi velate dal ragno benefico/ o sotto i sigilli dello smunto notaio/ nelle nostre stanze vuote» (V 401-409). 

Un istante d’abbandono, un solo istante, l’accorgersi di un terzo al cui seguito mettersi per avere pace: «Damyata: la barca rispose,/ lieta, alla mano esperta della vela e del remo/ il mare era calmo, il tuo cuore avrebbe risposto/ lieto, se invitato, battendo obbediente/ alle mani che regolano» (V 418-422). La terra desolata, il paese guasto, è alle spalle, adesso, non più innanzi. Ma la domanda non si arresta, anzi si acuisce: «Riuscirò a mettere infine in sesto le mie terre?» (V 425). E se ci riusciremo, come? Così, mentre tutto sembra di nuovo crollare, mentre «Hyeronimo è di nuovo impazzito», è proprio nei frammenti, nei detriti del mondo, che Eliot intuisce la strada: non il pianto sulle rovine, ma le rovine come materiale dato e necessario per costruire, per trarci fuori dall’orrore, per incontrare finalmente quel «terzo» che ci cammina accanto e non odiare aprile. Per potere finalmente bramare, nell’azione, la pace, lo shantih, quella «pace che sorpassa ogni comprensione» con cui Eliot chiude il poema, lasciando a lui e a noi il mondo come preghiera:

Con questi frammenti ho tirato su le mie rovine.
Ora vi sistemo io. Hyeronimo è di nuovo impazzito.
Datta. Dayadhvam. Damyata.
Shantih shantih shantih

(The Waste Land, v 430-433)