LIPSIA – Un collega insegnante di biologia (scuola di san Cristoforo in Sassonia-Anhalt), Rainer Patzer, è stato due anni in Armenia, ad Eriwan. Nei due anni della sua permanenza armena ho avuto la responsabilità del gemellaggio per la nostra scuola, che mi ha portato a mia volta, per dieci giorni nel maggio del 2012, proprio ad Eriwan. Rimasi colpito dal modo con cui si poteva fare un gemellaggio. Non iniziative limitate ad eventi eccezionali, ma un lavoro capillare di insegnamento della lingua e della cultura tedesca. 
“Spero che questa intervista, nel giorno in cui si commemora il genocidio armeno, possa servire da impulso per conoscere questo grande paese asiatico” mi dice Patzer. “Spero inoltre di contribuire alla memoria di una storia, quella armena, che si è intrecciata con elementi importanti della cultura europea”. Già nel 301, quindi dodici anni prima dell’editto di Milano del 313 (il quale segna più la libertas ecclesiae che il ruolo di religione di stato del cristianesimo) san Gregorio armeno, la cui statua si trova anche nel lato destro, guardando la facciata, di san Pietro in Vaticano, ha contribuito alla conversione del re Trdat III di Armenia e così al ruolo di religione di stato da parte del cristianesimo in Armenia.



Rainer Patzer, quale motivazione ti ha mosso ad andare a vivere per due anni in Armenia?
L’offerta pubblica di impiego da parte del Land della Sassonia-Anhalt, che offriva in un programma regionale la possibilità per un insegnante di lavorare due anni in Armenia, è stata sicuramente il motivo concreto per cui ho inviato la domanda; questo ha implicato da subito un’intensiva preparazione per ottenere e svolgere questo nuovo compito. Ma la motivazione interiore era già presente ed abbisognava solo di uno spunto esterno. Già da tanto tempo mi aveva interessato una tale possibilità,  avevo considerato la prospettiva di un impegno lavorativo all’estero, cioè di uscire dalla quotidianità della mia patria ed in modo crescente avevo sentito il desiderio di compiere questo passo. In questa fase la meta geografica ed anche gli stessi compiti o ambiti di lavoro erano secondari, piuttosto era per me importante il motivo di una “evasione”, forse meglio di una “partenza”. Ma quest’ulitma doveva combinarsi con la dimensione dell’aiuto, del servizio e dell’impegno sociale, senza porre precondizioni, senza aspettative e se possibile senza limiti burocratici soffocanti. Un altro desiderio era quello di andare al di là delle condizioni di vita dell’occidente e delle sue pretese. Per questo avevo pensato ad un paese in via di sviluppo, ad un paese che noi in Germania chiamiamo Schwellenland. Una frase di Antonio Machado mi è servita come ispirazione: “Viandante non c’è una via, la via nasce andando”. Volevo compiere questo passo in qualcosa che mi era, come esperienza duratura (a livello di viaggi di un mese sono stato in molte parti del mondo, dalla Mongolia al Perù), sconosciuto, una mossa in un nuovo cammino.



Perché alla fine hai deciso per l’Armenia?

Il rapporto con l’ Armenia non è nato casualmente e senza una storia. Nel 2003 avevo già fatto privatamente ed individualmente un viaggio di quattro settimane nella regione del sud del Caucaso, con un’attenzione particolare per l’Armenia. Negli anni successivi sono stato il responsabile di un gemellaggio della nostra scuola, come parte del programma di gemellaggio del nostro Land con l’Armenia, in forza di un contatto storico con questo paese asiatico ma con forti agganci europei. Questo lavoro mi ha permesso di viaggiare ulteriormente in Armenia e di coltivare contatti con la nostra scuola gemella in Eriwan e così di conoscere in modo più approfondito questo paese, sia a livello sociale che culturale.



Quale è stato l’ambito della tua attività in Armenia? Quali aspetti ti hanno procurato gioia e quali invece hai vissuto come un problema?
Dapprima avevo l’impegno dell’insegnamento di tedesco in una scuola statale. Oltre a questo, poco dopo, ho assunto anche un impegno analogo in una seconda scuola, che si trovava a quaranta chilometri della capitale. Così vi andavo ogni lunedì, con i piccoli mezzi di trasporto tipici dell’Armenia, cambiando il mezzo, per ogni viaggio, ben tre volte. Insegnavo tedesco là dalle sei alle otto ore, per il resto della settimana insegnavo invece nelle classi settima fino alla decima nella capitale Eriwan. Mi sono accorto velocemente come i ragazzi avessero uno straordinario desiderio di imparare ed impegnarsi, sia in attività per così dire spirituali, sia in attività sportive. Questo ha ampliato ulteriormente i miei compiti. Comprai alcuni semplici palloni da basket e mi prestai a mettere in piedi due volte alla settimana, in una palestra semifatiscente, una specie di comunità sportiva. L’interesse era grandissimo e cresceva a vista d’occhio, sia nei ragazzi che nelle ragazze. Man mano che questa esperienza cresceva alcuni studenti di pedagogia e i loro insegnanti mi chiesero di fare dei corsi di didattica e metodo, in una forma seminariale. Infine vorrei ancora accennare ai miei piccoli contributi in progetti a protezione dell’ambiente. In tutto ciò mi colpì l’enorme interesse per il sapere, l’incredibile gioia ed apertura delle ragazze e dei ragazzi che incontravo. Da parte mia cercavo di evitare ogni forma di insegnamento o aiuto calato dall’alto. Al contratrio, io volevo aprirmi agli uomini, alla vita e alla cultura, ed anche alla fede armena. Ho cercato la loro compagnia ed ho accolto per me l’occasione per imparare a mia volta il loro modo di vedere. Mi sentivo come uno che insegnando impara. Mi ha colpito profondamente l’orgoglio (in senso positivo) e la considerazione di se stessi che avevano i giovani armeni, la loro volontà di vita e la gioia, anche se spesso si trovavano in situazioni sociali molto difficili, spesso dolorose e drammatiche anche a livello personale. Ho sempre stimato le persone che incontravo e mi sentivo accolto da loro; mi faceva piacere stare con loro e mi sono sentito trattato come un membro della comunità e addirittura della famiglia.

Delusioni?
Delusioni le ho provate piuttosto nei contatti con certi connazionali, che erano in Armenia per diversi motivi ed interessi. In modo particolare ho provato come frustrante, deludente e forse anche scostante questo tipo di rapporti per la loro forzatura: teoricamente erano lì per lo stesso scopo per cui ero in Armenia io, ma ho imparato presto che non era l’entusiasmo il vero motore del loro lavoro e della loro vita. Mi sono vergognato perché mi vedevo associato con queste persone che lavoravano nel mio stesso ambito di attività, ma che seguivano solamente i propri interessi e mancavano anche di responsabilità, a parte le mancanze caratteriali proprie a tutti gli uomini. 

Vorrei ovviamente precisare che accanto a questi connazionali ve ne erano altri che invece facevano il loro lavoro con un grande impegno, con una profonda comprensione e rispetto per questo paese e i suoi abitanti e in modo particolare per i colleghi armeni che insegnavano tedesco o altre materie. Questi colleghi hanno permesso, per un certo periodo di tempo, che l’insegnamento di tedesco nelle scuole, lo sviluppo di vari gemellaggi con singole scuole e la promozione di diversi progetti scolastici fossero ad un livello molto alto. Alcuni dei ragazzi armeni dopo aver superato i difficili esami di lingua tedesca hanno continuato questa esperienza studiando germanistica o addirittura hanno ricevuto borse di studio per studiare in università tedesche. Attraverso questo lavoro capillare di gemellaggio tra la Sassonia-Anhalt e l’Armenia abbiamo potuto raggiungere nuove scuole che dapprima non erano ancora coinvolte e che hanno finito per contribuire alla riuscita del gemellaggio stesso. Col tempo abbiamo creato un rapporto di lavoro fecondo con il ministero della cultura armena e con il consolato tedesco. Purtroppo però questo periodo di fecondità ebbe termine: un cambiamento nella guida del progetto, con una conseguente riduzione del gemallaggio a livello meramente formale, ebbe l’effetto di far crollare tutto ciò che si era costruito. Come dappertutto, rapporti di questo genere vivono dell’impegno personale degli attori in gioco; se diventano solo una cosa di facciata, pian piano perdono in efficacia e vitalità. Solo gli uomini con il loro entusiasmo possono portare al successo un’opera come un gemellaggio o dei progetti educativi; il sostegno solo finaziario o i discorsi domenicali hanno la stessa funzione dei parassiti su un organismo.

Quali incontri sono stati per te particolarmente importanti?
Nel mio viaggio in Armenia molti aspetti facevano nascere in me la curiosità per il nuovo; conoscere ciò che era ancora sconosciuto, una mistura tra la sollecitazione per paesaggi a me estranei, per la lora flora e la fauna − che ovviamente hanno a che fare con i miei interessi personali e lavorativi a livello biologico − e l’interesse per una cultura straniera, la sua storia e la sua tradizione. Ma in in primo luogo − e questo ha a che fare anche con il pensiero e la cultura − sono ed ero interessato agli uomini, al loro linguaggio, alla loro quotidianità e tradizione, alle speranze che conservavano o che avevano perso, alle loro preoccupazioni e ai loro bisogni, insomma al loro vivere e morire, se posso esprimermi così. Mi ha sempre interessato ciò che dal nostro punto di vista può sembrare impenetrabile, ciò che deve essere rispettato e a sua volta rende possibile il rispetto tra gli uomini o addirittura lo genera. Un rispetto che ho sempre visto negli uomini, che irradiano una cultura lontana e straniera e che mi corrisponde. È il tentativo e il desiderio di fare i primi passi nel “sentire” un mondo. Un sentimento che viene dall’infanzia e che aiuta la conoscenza, che è allo stesso tempo curiosità e percezione della stranezza; insomma è ciò che una grande poetessa tedesca del XIX secolo, Annette von Droste zu Hüllshoff, chiamava “una tenerezza mista a spavento”. 

E cos’hai avuto modo di scoprire?
Questa nazione non è per così dire mai piana, quasi mai dolce, armonica o bella nel senso che oggi si intende con questa parola. Piuttosto dà la sensazione di essere ruvida, frammentaria, in alcuni luoghi “brusca”, deserta, non invitante e selvaggia. Molte percezioni iniziali si sviluppano in un secondo sguardo e danno luogo come alla percezione di una bellezza ruvida. Bisogna potere e voler lasciarsi andare a questo incontro, permetterlo, così che possa crescere un amore. 

La sensazione di stranezza della prima impressione si perde e si trasforma in un invito senza limiti e in una affezione, ciò che è selvaggio si rivela come una tradizione arcaica e come naturalezza, ciò che è brusco come forza e decisione, quello che è ruvido e frammentario porta nel volto una storia di questo popolo e di questa nazione più che millenaria. Così ci si accorge che gli abitanti dell’Armenia sono immagine della loro terra, solo che la loro entusiastica amichevolezza e cordialità tolgono all’ospite immediatamente ogni timidezza ed insicurezza al cospetto di ciò che è straniero. Naturalmente in questi due anni di permanenza ho intessuto molti rapporti, molti incontri sono fermi nella mia memoria. In primo luogo i miei colleghi armeni nella scuola, gli scolari e gli studenti, ma anche uomini che non appartenevano al mio immediato campo di azione nella scuola: artisti, filosofi, teologi, biologi, contadini, uomini semplici incontrati nelle mie escursioni in questa terra. Ognuno di questi incontri ha contribuito a formare un grande quadro d’insieme, ognuno nel suo modo è stato arricchente, commovente e impregnato di una profonda umanità. Nello sguardo retrospettivo si mischiano i ricordi con le proprie immagini, le associazioni con la presunta realtà. Ma l’impressione centrale di queste amicizie è la grande forza interiore, la fiducia e l’abbandono ricolmo di quest’ultima senza le quali la soppravivenza di questo popolo non sarebbe immaginabile.

Puoi descrivere o dettagliare meglio questo sentimento?
Noi tutti crediamo di avere una sensibilità intima di cosa sia la Gelassenheit. Se però cominciamo a riflettere su cosa sia l’abbandono fiducioso e come sia possibile raggiungere questo stato d’animo, ci accorgiamo della difficoltà. I molteplici piani di questo concetto si vedono già dal fatto che non c’è una traduzione in un altra lingua della parola tedesca Gelassenheit (io ho adottato la traduzione proposta da Luca Tuninetti in Concetti morali fondamentali di Robert Spaemann, 1993; ndc). Nella lingua inglese abbiamo come corrispondente alla parola “Gelassenheit” coolness o calmness, in francese placidité o flegme, in spagnolo: tranquilidad. Già a livello linguistico comincia la ricerca del significato di questo concetto nella decostruzione nei suoi morfemi. È già il semplice riflettere sulla forma del participio passato gelassen o sul suffisso heit raggiunge conseguenze sorprendenti. Gelassen ha la sua radice nella mistica tedesca. Il Maestro Eckart, nato nel 1260, ha scritto per primo sul concetto della Gelazenheit. Il primo passo immediato verso il gelazen sin (gelassen sein, la parola sein significa essere) è stato quello del gelazen han (gelassen heit). Questo significa che dapprima bisogna imparare ad agire senza una determinata intenzione, senza differenziare e difendersi, per raggiungere così l’abbandono fiducioso. Oggi parliamo in tedesco di Loslassen, lasciare andare. Heinrich Suse, uno scolaro di Eckart, era entusiasta quando incontrava persone capaci di un abbondono fiducioso, che non si lasciano distrarre da un prima e da un poi. Queste persone vivono nell’attimo che “emerge dal continuo del tempo”. Questo momento abituale è libero “dall’estasi, ma pieno di intensità”. Ecco, così mi sono apparsi spesso gli armeni!

Cosa pensi che noi europei dovremmo sapere dell’Armenia?

Giorgio Agamben dice che il vecchio continente, l’Europa, ha unito solo economicamente le nazioni, mentre le “affinità” culturali concrete non hanno alcun peso. Insomma l’Europa omologa le culture. Si è rinunciato a tutte le affinità come forme di vita, religione e cultura, e al loro posto è subentrata la forza “ugualitaria” dell’economia. Ma questo tipo di interessi economici rispecchiano, per loro natura, solamente l’interesse di una minoranza, quella dei ricchi, mentre la maggioranza soffre per essi. L’ Europa è un amalgama di politica, mezzi di comunicazione sociale ed economia e questo amalgama corrode la sostanza comunicativa, etica e religiosa della cultura. Il linguaggio viene mortificato e si rende per così dire autonomo, come una sorta di spettacolo dei mezzi di comunicazione sociale. Visto che ciò che vi è di comunionale in una società viene formato nel linguaggio, se questo muore, muoiono anche le forme di vita collettive. E quello che rimane è il soggetto liberal-capitalistico. Il popolo armeno, seppure pagando un prezzo molto alto, cioè sofferenze insopportabili e perdite terribili, ha potuto mantenere sia la propria lingua sia la sua cultura. Un popolo, giocattolo in mano ai grandi vicini e alle grandi sfere di influenza politica ed economica − oggi la situazione non è cambiata − forse ha sopravissuto solamente in forza della propria cultura, della propria fede e della propria lingua. Ha dovuto sopportare cento anni fa un genocidio, in cui sono state uccise un milione e mezzo di persone, la perdita di una grande parte dei suoi territori, dei suoi tesori artistici, la distruzione di centinaia di chiese, cimiteri e centri di meditazione; deve ancor oggi vivere la propria esistenza isolato da una grande parte dei suoi vicini o da loro minacciato, manca di materie prime o tesori economicamente significativi. Così l’interesse del mondo occidentale e del resto del mondo per questo popolo è minimo, dal punto di vista strategico si è interessati ad avere potere ed influsso sulla regione, ma neppure l’ovvio riconoscimento delle sofferenze ed ingiustizie subite, viene concesso al popolo armeno. Eppure con orgoglio ed affrontando grandi pericoli gli armeni lottano per l’affermazione di sé, senza essere sicuri di riuscire e senza una speranza ovvia. In questo senso ci sono molte cose che varrebbe la pena di conoscere di questa terra armena e del suo popolo. Il modo migliore per farlo è parlare con gli armeni stessi, condividere un po’ la vita con loro. In questo modo si aprano i tesori armeni, che sono certamente utili per comprendere la nostra storia europea, che non deve essere ridotta al soggetto liberale e capitalistico di cui ho parlato prima. Parlando con gli armeni spesso ho fatto l’esperienza dello stupore e a volte mi sono vergognato del nostro modo “europeo” di vivere e pensare.

Nei giorni che siamo stati insieme ad Eriwan abbiamo svolto coi ragazzi armeni e tedeschi un progetto sul genocidio armeno, basato sulla lettura del romanzo di Antonia Arslan “La masseria delle allodole” (Milano, 2004). Quale impressione ti è rimasta del romanzo? 
Bernhard-Henry Levy ha detto una volta: “Dobbiamo pensare dai margini. Già l’idea di un punto centrale implica un pensiero teologico e metafisico, accettato senza domande. La mutezza (traduco coscientemente così e non con “silenzio”, ndc) è una dichiarazione di guerra maestosa, certamente anche pacifica, ma senza dubbio chiara o l’affermazione di un disprezzo”. 

Gli armeni sono stati sempre al margine e sono stati anche compresi e trattati solo in questo modo; non si è mai pensato dalla loro perspettiva. Leggendo “La masseria delle allodole” e pensando sul destino del popolo armeno descritto da Antonia Arslan nel suo romanzo ho pensato spesso a questo fenomeno di marginalizzazione. Ovviamente mi hanno sempre anche colpito la dimensione di orribile strazio che hanno dovuto soffrire gli uomini, in questo caso gli armeni. Ma sono diventato cosciente di un secondo significato di una tale storia, forse più universale. Tutte le situazioni in cui l’uomo si trova ad esistere sono ambivalenti, ma riusciamo ugualmente a scomporle nelle loro parti. C’è un numero infinito di giustificazioni. Mia nonna usava dire: è uguale cosa fai, è sempre falso. Anche se ad alcuni non sembra, questa frase dona una grande consolazione. Qui nell’Europa centrale non dobbiamo temere, nei nostri giorni, nessuna persecuzionesul tipo di quella subita dal popolo armeno, insomma nessuna che minacci la nostra esistenza: possiamo per lo più dire ciò che vogliamo. La battaglia di ogni giorno è quella di resistere alle tentazioni commerciali. Ma il tipo di decisioni che dobbiamo prendere noi per superare questo tipo di tentazioni non sono paragonabili alle decisioni morali che dovevano prendere i personaggi del romanzo della Arslan. E così stupisce per quanto tempo sia riuscito a questi personaggi, pur in una situazione drammatica e terribile ed in cui rischiavano la propria vita, di aiutare amici o addirittura persone che non conoscevano. E il romanzo raccontà la realtà, non una storia inventata. Molti lettori, però che hanno letto storie simili, forse penseranno che gli armeni avrebbero dovuti essere ancora più eroici, ancora più audaci. Ma improvvisamente si comprende, almeno così è capitato a me leggendo, che nessuno di noi sarebbe stato capace di azioni ancora più eroiche. Più passa il tempo e il mio confronto con temi storici si approfondisce, tanto più ho la sensazione che questo vale per tutte le figure storiche; è difficile fare un passo intero, anche i migliori ne compiono spesso solo una metà. In verità questi mezzi passi meritano il nostro stupore e il nostro rispetto. Dovremmo pensarlo più spesso ed orientare il nostro agire in questo senso.

Quale altra opera le persone interessate all’Armenia dovrebbero avere almeno sentita una volta menzionata?
Accanto a  questa opera di Antonia Arslan vorrei rinviare al romanzo di Franz Werfel, Die 40 Tage des Musa Dagh (I 40 giorni del Mussa Dagh) per fare un primo passo di comprensione della tragedia degli armeni all’inizio del secolo passato. Durante il mio periodo di vita nel Caucaso mi sono occupato dei documenti tradotti sul tema del genocidio a cui potevo accedere senza difficoltà nella biblioteca di Eriwan. Ho anche potuto vedere e leggere moltissime opere liriche, nella loro molteplicità, raccolte mitologiche e quelle piccole storie liriche che si chiamano Hairane e in questo modo penetrare un po’, ma in modo profondo la lingua, il pensiero e la storia culturale di questo popolo. Il Matenadaran, uno dei musei più importanti dell’Armenia, conserva il tesoro più sacro degli armeni, i libri e in primo luogo gli antichi codici, scritti a mano, ed è, come centro di ricerca e come eredità culturale, di un valore incommensurabile  per la tradizione e la storia aremena. 

La letteratura non è solo una fonte inesauribile di sapere antico, ma racconta anche la raffinatezza unica e la forza piena di colori delle miniature armene e testimonia una profonda impronta religiosa di questo popolo. Tra le parole che voglio sicuramente ricordare e proporre a chi ha interesse per la cultura armena sono quelle di autori, che raggiungono un livello di letteratura mondiale, come Osip Mandelstam (Viaggio in Armenia) o Andrej Bitow (Lezioni armene). Essi hanno eretto sia per la loro terra che per gli uomini un monumento letterario di amore e di raccoglimento devoto per l’Armenia. Ne cito qui un passaggio, scelto quasi a caso, per incuriosire il lettore: “Niente è così colmo di insegnamento e porta più gioia che l’immergersi nella società di uomini di una razza completamente diversa, che si rispetta massimamente, con cui si sente una comunanza, per cui si è, anche se dal di fuori, orgogliosi. La pienezza di vita degli armeni, la loro ruvida tenerezza, un nobile zelo lavorativo, la loro inspiegabile avversione per ogni metafisica e la loro meravigliosa familiarità con il mondo delle cose reali − tutto questo si è rivolto a me dicendomi: sii sveglio, non avere paura al cospetto del tuo tempo, non nasconderti” (Osip Mandelstam, Viaggio in Armenia). Vorrei riprendere un motivo che ho accennnato all’inizio del nostro dialogo citando Machado con il suo pensiero sulla via e sull’andare. Alla fine dei miei due anni armeni mi sono confrontato con questa affermazione di Machado: “Viandante non c’è una via, la via nasce andando”, per paragonarla con la mia esperienza armena. Ma non con un discorso teorico, bensì coll’andare a camminare in vie tra i dirupi montani, tra bizzare formazioni di rocce, su terra marnosa piena di polvere e di un colore rosso-grigio, vedendo denti rocciosi di agata esposta. Sotto le suole delle scarpe si sdrucciolava terra secca, scricchiolava tufo vulcanico come cocci di argilla. Pietre determinano il paesaggio, la vita degli uomini, l’arte architettonica e di scultura. Tutto in questi paesaggi montani, che sono come dei ruderi della natura, testimonia la caducità: la caducità anche delle pietre che si crepano e sbriciolano, caducità delle costruzioni, dei conventi e delle chiese, ormai avvolte da erba e lichene; caducità degli uomini, che camminano in questi ruderi. I pensieri si perdevano in un’immagine della povertà delle rocce e dell’impossibilità di passarle. L’anima del viandante viene quasi portata dai fiumiciattoli, che come fili sottili e minimi attraversano i pochi boschi, che le montagne riforniscono d’acqua. I detriti si ampliano e scompongono la propria struttura fino all’irriconoscibilità e la nostra immaginazione cresce in ciò che è sconosciuto, avendo la sensazione forte di aver lasciato per sempre il mondo a noi famigliare. Nel silenzio si aprono nuove vie.