Mario Luzi (1914-2004) è stato un maestro, una sensibile antenna delle correnti più profonde del Novecento, dall’ermetismo della Barca (1935) all’andamento “fluviale” delle ultime, felicissime, raccolte. Poeta di un cantiere in continua allerta, occupa uno dei primi posti nella triste classifica dei Nobel mancati (la pole position è di Ungaretti: alcuni retroscena si conoscono ora grazie a L’allegria è il mio elemento, il carteggio con Leone Piccioni, appena pubblicato da Mondadori).
Luzi è stato un maestro, dicevamo, che rischia però di restare senza discepoli. La poesia italiana ha infatti troppo spesso imboccato un via opposta alla sua, con una predilezione verso certo minimalismo di area lombarda, allergico alla ricerca “verticale” e trascendente della poesia (linea invece così cara a un altro grande come Caproni).
Il centenario della nascita di Luzi è quindi un’opportunità per nuovi bilanci.
Intanto, il sito www.centenariomarioluzi.com offre la panoramica delle iniziative in corso: oltre alle celebrazioni, spicca la notizia della preparazione di due nuovi volumi (Garzanti per la poesia, Aragno per le prose) curati da Stefano Verdino, uno suoi esegeti più fedeli, che nel 1998 preparò il Meridiano con l’opera omnia lirica allora disponibile. Tra i nuovi contributi già presenti, si può ricordare il saggio di Gianni Festa (Il discepolo e lo scriba: i “fondamenti invisibili” della poesia di Mario Luzi, Esd, pp. 320) che studia il poeta dagli esordi sino al Desiderium lucis delle estreme raccolte (Il viaggio terrestre e celeste di Simone Martini (1994), Sotto specie umana (1999), La Passione. La Via Crucis (1999) e Dottrina dell’estremo principiante (2004).
Con un andamento che sembra quasi opposto a Montale, Luzi diede il meglio di sé nella vecchiaia. E forse l’esempio più chiaro è proprio Il viaggio terrestre e celeste di Simone Martini. In quel poema Luzi immaginò (e inventò) il ritorno nel 1334 del pittore dalla Francia verso la patria senese. Ma il viaggio diventa il trampolino per addentrarsi nelle Questioni della vita, la ricerca di Dio, il rapporto con la natura, il senso della bellezza. Un racconto che procede per epifanie e rivela tutta la sua “conoscenza per ardore” (così diceva di lui Raboni).
Può essere suggestivo, anche per i più giovani, rileggere la Via Crucis di Luzi, opera brevissima (e forse poco ricordata), scritta per il venerdì santo del 2 aprile 1999 al Colosseo, e che fu letta da Sandro Lombardi e Lucilla Morlacchi durante la liturgia celebrata da Giovanni Paolo II. Nella Premessa, il poeta ricordava la sua sorpresa alla notizia della commissione dell’opera: “Quando mi fu proposto di scrivere il testo per le meditazioni della Via Crucis ebbi, superata la sorpresa, un contraccolpo di vero e proprio sgomento. Ero invitato a una prova ardua su un tema sublime. La Passione di Cristo – ce ne può essere uno più elevato?”.
Il Cristo di Luzi vive un lunghissimo ed estenuante Getsemani. Nell’Introduzione, lo troviamo quasi sopraffatto dal dubbio di non essere ascoltato dal Padre. Nella battaglia, però, vince la fiducia filiale: “Padre, nella tua prescienza conosci tutto prima che sia / e quando è […] / Tutto ti è comprensibile: anche questo; / eppure dubito talora / che questa sofferenza non ti arrivi / poi subito di questo mi ravvedo / perché so la tua misericordia”.
È un Cristo spiazzato dall’aridità degli uomini, gli stessi che lo avevano accolto nella Gerusalemme vestita a festa pochi giorni prima: “Sono ora Padre in balìa degli uomini / a cui tu mi hai mandato. / Che fare? Io li ho amati. / L’amore ha molte forme / tutte le ho provate e fatte ardere […] / A me come viatico soltanto l’amore è stato dato, / non ho avuto altra forma per difendermi” (Gesù condotto di fronte alle autorità terrene).
E ancora: “Questa marmaglia aizzata contro di me / ignora tutto di te, di me e dello Spirito / non conosce nemmeno il motivo dello scandalo, / ha solo in corpo un furore distruttivo da sfogare” (Gesù caricato della croce).
È interessante confrontare questa via Crucis con quella del cileno José Miguel Ibáñez Langlois (Santiago, 1936). Autore poco noto in Italia (lo ha tradotto per Ares Cesare Cavalleri), ha scritto un vertiginoso poema sulle ultime ore di Gesù sulla terra (Il libro della passione) fuori da ogni inquadramento critico.
Se Luzi cita il “furore distruttivo”, Langlois inizia così la poesia sulla flagellazione: “I flagelli già si tingono del colore simbolico della regalità / il reo si contorce a somiglianza di animali vari / l’immagine più appropriata e biblica è quella del verme / anche se i suoi gemiti possono essere paragonati a quelli dell’agnello / l’effetto complessivo è stereofonico / i gemiti del reo il ruggire della folla le frustate il muggire del reo / le grida dei carnefici qualche silenzio disorientato / e laggiù in fondo il belato degli agnelli pasquali / il ciclo si ripete tre volte / quando sono esaurite le forze fisiche dei flagellatori / viene la coppia di rincalzo energie nuove spirito di emulazione / verghe nuove con punte di ferro vergini…”.
Immagine spietate, come quelle rivisitate cinematograficamente da Mel Gibson.
Ma sappiamo che andò proprio così.
Tra i momenti più toccanti della meditazione di Luzi, vi è il racconto dell’affetto di Gesù per la valle degli uomini: “Padre mio, mi sono affezionato alla terra quanto non avrei creduto. / È bella e terribile la terra / […] Mi sono affezionato alle sue strade, / mi sono divenuti cari i poggi e gli uliveti, / le vigne, perfino i deserti. / È solo una stazione per il figlio tuo la terra / ma ora mi addolora lasciarla / e perfino questi uomini e le loro occupazioni, / le loro case e i loro ricoveri / mi dà pena doverli abbandonare” (Gesù e la terra degli uomini).
La Via Crucis si chiude con la speranza che vince sul sangue. Si chiude con dei versi splendidi che non hanno nulla da invidiare al resto delle sue opere “maggiori”, anzi sono da mandare a memoria, come si faceva un tempo a scuola: “L’offesa del mondo è stata immane. / Infinitamente più grande è stato il tuo amore. / Noi con amore ti chiediamo amore. / Amen”. (Coro, preghiera).