Gabriel García Márquez era diventato immortale da qualche anno, prima ancora di attraversare l’ultima porta di una casa piena di stanze vuote, forse riempita di specchi e di fantasmi, nuovo José Arcadio Buendía perso nel labirinto della vecchiaia. Forse, percorrendo quel dedalo lineare, avrà trovato Aureliano, Úrsula, Amaranta, Prudencio Aguilar, e avrà ricordato quel pomeriggio di tanti anni fa in cui suo nonno lo portò a conoscere il ghiaccio.
Il nonno, Nicolás Márquez, gli aprì le porte della letteratura sotto la forma del vocabolario della lingua castigliana, gli infiniti racconti della Guerra dei Mille Giorni, la predilezione per il cinema e per la razionalità. il piccolo Gabriel era coccolato con eccesso dalla nonna, Tranquilina che giurava di aver visto le anime dei morti, aveva delle premonizioni, e credeva nel soprannaturale. Dalla combinazione di quelle due poderose impronte nasce l’amore per la letteratura e la sfrenata immaginazione dello scrittore colombiano.
García Márquez conosce due periodi molto netti: prima e dopo la fama. Prima: una vita dura, a volte di stenti, come il momento in cui deve vendere il frigo dell’appartamento messicano per poter finire Cent’anni di solitudine. Dopo, l’abbondanza, il carisma, il prestigio, fino ad essere l’unico scrittore al mondo trattato da uomo di stato.
Il colombiano è stato una sorta di zingaro. Da quando girava nel severo mondo di Bogotá vestito all’usanza caraibica, con delle camicie sgargianti e sandali da spiaggia davanti agl’incravattati burocrati della capitale, fino al momento di ricevere il Premio Nobel con il “liqui-liqui”, un vestito bianco autoctono. Dalla costa all’altipiano e di nuovo alla costa, patì letteralmente la fame in ogni circostanza.
Tutto per l’inarrestabile vocazione della letteratura. La scommessa era soprattutto con se stesso. La sua ambizione era quella di essere il miglior scrittore al mondo. Fino al 1962, si esercitò nel realismo, con venature faulkneriane. Dopo, fu decisamente hemingwayano. Foglie morte appartiene a Faulkner. Nessuno scrive al colonello, a Hemingway. I critici europei si sollazzano nel segnalare le influenze del Vecchio Continente. Forse perché evidente, non segnalano quella più marcata: Cervantes. A un lettore ispano, la figura del Colonello Aureliano Buendía che inizia 32 guerre civili e le perde tutte evoca immediatamente quella dell’Ingegnoso Idalgo don Chischiote della Mancha. Alla scoperta di Kafka si unisce la rivelazione di Juan Rulfo, il classico autore messicano. Non c’è grande autore ispanoamericano che non figuri nell’albero genealogico di García Márquez, dal lontano Rubén Darío, passando per Miguel Ángel Asturias (senza la sua letteratura quella di García Márquez non sarebbe esistita) fino all’antitetico Borges di cui prende persino dei tratti stilistici.
Nel 1962, a Città del Messico, scopre la sua definitiva voce. Alcuni racconti di I funerali della Mamá Grande cominciano a abbozzare ciò che esploderà nel racconto omonimo. L’iperbole, i paragrafi tracciati come una colonna salomonica, logici, barocchi, perfetti, la frase sentenziosa e fatale, l’esclamazione definitiva, l’aggettivo preciso o insolito, l’ossimoro, la piena felicità di contenuto e fondo. Di nuovo, la lingua spagnola nel suo maggior splendore.
L’espressione più compiuta della scoperta sarà Cent’anni di solitudine, ma la sperimentazione continua con L’autunno del Patriarca, dove i capitoli si snodano senza punteggiatura e si consolidano le ossessioni ricorrenti dello scrittore concentrate in una sola: la costruzione di un mondo totale e autosufficiente. E poi: il rischio del melodramma nell’Amore nei tempi dei collera, più un trattato sull’amore e la sua disperazione che un romanzo; il tema del destino e del tempo circolare in Cronaca di una morte annunciata; la dolente indagine sul potere nel Generale nel suo labirinto.
La grande domanda non è perché Gabriel García Márquez era un grande scrittore. Lo sappiamo tutti. La domanda è perché fosse tanto amato. Molto probabilmente lamentiamo la scomparsa del grande scrittore colombiano semplicemente perché in ogni sua opera si celebrava il grande evento della vita. La vita così come ci è stata data, con tutte le sue contraddizioni, miserie, debolezze. E con i suoi momenti felici ed esaltanti. Gabriel García Márquez interrogava la vita con lo stesso stupore con cui un bambino va scoprendo il mondo. Con la potente passione d’indagare, attraverso le storie, cosa siamo noi, dove ci porta lo spirito. Cioè, con la potente passione della letteratura.