Da molto tempo la Fondazione Beyeler di Basilea organizza mostre di solido impianto scientifico e di sicura piacevolezza. A differenza dell’Italia, dove quando è annunciata la rassegna di un grande artista si teme sempre il peggio (si teme cioè di trovarsi di fronte a un nome-civetta e a un contenuto casuale, perché accade spesso di vedere antologiche su Picasso, Pollock, Chagall, gli impressionisti, dove dei suddetti c’è solo qualche quadro minore, circondato da opere di comprimari che non interessano a nessuno), a Basilea si può – come si usa dire – andare sul sicuro. L’eccellente mostra dedicata quest’anno a Odilon Redon, aperta fino al 18 maggio, non fa eccezione e ricostruisce tutto il percorso dell’artista, dai “noirs” alle sue composizioni di fiori, dalle Ofelie alle ultime opere.  



Redon (Bordeaux 1840-Parigi 1916) è un artista che è utile conoscere anche quando non ci si interessa specificamente di pittura. Il suo insegnamento consiste nella capacità di riportare l’arte a esprimere non solo il visibile, ma anche l’invisibile. Gli impressionisti avevano espulso dai loro quadri i soggetti non naturalistici, rinunciando ai temi storici, religiosi, letterari, mitologici, leggendari, fantastici, simbolici, allegorici. Avevano sacrificato la dimensione concettuale dell’arte, riconducendola quasi esclusivamente all’esercizio dello sguardo e praticando una “pittura retinica”, cioè di pura sensazione, come li accuserà Duchamp. Redon invece, e con lui tutto il movimento che verrà chiamato simbolista, ci dice che la natura, le cose, l’essere non si conoscono solo con gli occhi. Anzi, quello che non possiamo vedere, ma di cui intuiamo misteriosamente la presenza, è più importante di quello che vediamo.



Questa concezione si rivela in modo evidente nei suoi quadri dedicati ai fiori. Redon non dipinge corolle, steli, petali come se fosse appena stato in un prato, in un giardino, dal fioraio e avesse disposto in un vaso quanto aveva colto o comperato. No, per lui il fiore è un’apparizione: qualcosa che, coi suoi colori intensi ma soffusi e la sua materia impalpabile, sembra venire da chissà dove. Il fiore, ogni fiore, è un sogno e, possiamo dire, un miracolo. Steli e petali, allora, sono evocazioni evanescenti, creazioni della fantasia prima che della natura, simboli dell’oltre che si rivela attraverso il corporeo o che emerge dal fondo della memoria. Non a caso il fiore più ricorrente nelle sue composizioni è il papavero, emblema dell’oblio.



È una visione mistica quella di Redon? Non propriamente, perché la sua pittura non si apre alla trascendenza in senso religioso, tantomeno a una religione rivelata, anche se troviamo fra i suoi lavori temi buddisti, ma anche cristiani, come il raffinato Christ en croix della collezione Buhrle. 

Nelle sue opere si avverte semmai uno spiritualismo senza nome, il presentimento di un Dio ignoto o, forse, dimenticato. Eppure nel mondo fin de siècle, segnato dalla filosofia positivista e materialista in cui si trova a vivere, Redon porta un’istanza, un’esperienza, un desiderio nuovi. Con lui e col simbolismo, insomma, la vista, l’impressione, la percezione della realtà, di cui avevano parlato Monet e Renoir, non sembrano più sufficienti. Al termine stesso di realtà si attribuisce ora un significato più vasto e all’arte come natura dell’impressionismo si sostituisce appunto l’arte come simbolo. Etimologicamente la parola, dal greco “sun-ballein”, “legare insieme” suggerisce già il riallacciarsi a qualcosa: la pittura non deve limitarsi a creare un rapporto tra chi guarda e chi è guardato, ma anche tra ciò che si vede e ciò che è oltre l’occhio. 

Il programma di Redon è preciso: “La natura ci ordina di obbedire ai doni che ci ha fatto. I miei doni mi hanno introdotto al sogno: ho provato i tormenti dell’immaginazione e il sentimento di sorpresa suscitato dalla matita”.

Per lui dunque, che pure da giovane aveva studiato a lungo la pittura all’aria aperta, ispirarsi alla natura significa soprattutto ispirarsi al mondo dei sogni e attingere all’incerto, all’impalpabile, all’indefinito. 

Da un punto di vista cromatico, diversamente dagli impressionisti, Redon valorizza inizialmente il chiaroscuro, le ombre, il nero. “Il nero è più spirituale del più bel colore della tavolozza o del prisma” dichiara. Recupera anche i soggetti letterari, ispirandosi a Poe e Mallarmé, e popola le sue stampe di creature notturne, di mostri microbici, di folletti, di cellule occhieggianti e animate. Dopo il 1890, però, recupera gradualmente l’uso del colore (un colore lieve come polline) e accentua la sua vocazione vitalistica, concentrandosi soprattutto sull’infinitamente piccolo, su una biologia irreale e brulicante.

Morirà a Parigi nel 1916, nel pieno della prima guerra mondiale, quando il suo mondo di sogni si è ormai trasformato in un mondo di incubi e quando i suoi cavalieri che cavalcano nel cielo si sono tramutati in combattenti nelle trincee.