Il verso di apertura di The Waste Land, il celeberrimo April is the cruellest month, affascina. Ma perché? Thomas Stearns Eliot, il suo creatore, ebbe anche a dire, in un saggio intitolato Tradition and the Individual Talent (1919): “No poet, no artist of any art, has his complete meaning alone. His significance, his appreciation is the appreciation of his relation to the dead poets and artists. You cannot value him alone; you must set him, for contrast and comparison, among the dead. I mean this as a principle of æsthetic, not merely historical, criticism”. Nessun poeta, nessun artista di alcuna arte, ha in sé soltanto il suo significato completo. Il suo significato, il suo apprezzamento è l’apprezzamento della sua relazione ai poeti ed artisti morti. Non lo si può valutare da solo; si deve porlo, per contrasto e paragone, fra i morti. Considero ciò un principio di critica non meramente storica, ma estetica



Forse nelle ossa di T.S. Eliot, New Englander trapiantato alla Sorbonne di Parigi e poi nella City of London, si erano calcificate, oltre che il Golden Bough e From Ritual to Romance, i due capisaldi antropologici a cui Eliot ancorò la sua percezione della primavera e del tempo tutto, anche alcune di queste memorie (di certo la prima) della spring, che in inglese indica sia un tempo (“primavera”) che un luogo, anzi una origine (“sorgente”):



What that Aprille, with hise shoures soote,
The droghte of March hath perced to the roote

Quando quell’Aprile, con i suoi dolci scrosci
La siccità di Marzo ha scavato fino alla radice
(Geoffrey Chaucer, Prologo de The Canterbury Tales, Medio Inglese, 1400)

Joseph and Mary walked
Through an orchard good,
Where was berries and cherries
As thick as might be seen.

Giuseppe e Maria passeggiavano
In un frutteto sì bello,
Dove stavano fragole e ciliegie
Tante quanto lo sguardo ne coglieva.
(The Cherry Tree Carol, anonimo, Medio Inglese, inizio XV secolo)

He cam also stille
Ther His moder was,
As dew in Aprille
That falleth on the gras.



Lui venne così dolcemente
Dove Sua madre stava,
Come fa la rugiada in aprile
Che cade sull’erba
(I sing of a Maiden, anonimo, Medio Inglese, XV secolo)

Scrosci d’acqua, radici, fragole, ciliegie, rugiada ed erba che vibrano fra marzo ed aprile, tutti oggettivi correlativi, agglomerati di suoni che sono parole; che son cose; che sono il sentore di quelle cose, cioè di una emozione. Quale emozione nella reverdie che Chaucer crea in apertura del suo poema narrativo, o nella modesta carol che racconta del miracolo del ciliegio che si abbassa per porgere al Bimbo nel grembo le ciliegie che le voglie di Maria pretendono, o nella ancora più innocente lirica dove Cristo si incarna nel grembo di Sua madre così facilmente come la rugiada che si posa su di un prato? Un dolce e semplice sentimento di gioia per la vita che rinasce, a primavera, un sentimento “naturale” senza ombre, senza altro sentore che la pura ed assoluta gioia, e che poi Eliot trasforma, immotivatamente, in un rifiuto pervicace, irragionevole, di quella dolcezza in realtà così desiderabile, che solo un pazzo rifiuterebbe? 

Ma la primavera che sta chiusa nelle ossa di T.S. Eliot è altra cosa. La pioggia che sveglia la terra dalla sua “drought” la scava fino alla radice, anzi, la “perfora” (“perced”, “pierced”) fin giù alla radice, come un bisturi che va ad incidere a fondo, ed il Bimbo dopo aver donato a Sua madre le ciliegie “as red as blood” (“rosse come il sangue”) sulle sue ginocchia le dice come sarà il mondo: Lui sarà morto come le pietre nella parete, e le pietre delle strade lo piangeranno. 

Tutto un’illusione, allora, o peggio un inganno di Garlic and sapphires in the mud (“aglio e zaffiri nel fango”, sempre Eliot, stavolta dai Four Quartets), e un cumulo di Dung and death (“Letame e morte”, oppure “Feccia e morte”, entrambe pessima resa delle due monosillabiche concatenate ed allitteranti di Eliot)? Oppure ha ragione il canto alla Maiden, alla “Fanciulla” (ma anche “Vergine” e “Serva”) che presenta l’impossibile (il divino che si fa pienamente e totalmente umano) come se fosse per Lui tanto semplice quanto per la rugiada cadere su erba/prato (“gras”), e poi su un fiore, e persino su di un rametto? 

Tanta innocente grazia come si sposa con la forza imperiosa che chiude The Cherry Tree Carol con “My uprising shall be;/ O the sun and the moon, Mother,/ Shall both rise with me” (“Io risorgerò;/ oh sole e luna, Madre, entrambi si leveranno con me“), con uprising, il “levarsi” dalla tomba” che è la stessa cosa di “resurrection”, “resurrezione” ma che si trasmuta molto più facilmente nel ben più familiare “levarsi” (“rise“) del sole e della luna. 

O come la brama di cercare la vita dello spirito nei pellegrinaggi nel verso “Thanne longen folk to go on pilgrimages” (“Allora brama il popolo di partire per pellegrinaggi“) che chiude l’inno celebrativo di Chaucer alla primavera, bella ma forse feroce? Come se il poeta volesse dire con questo ultimo verso: che senso ha la primavera se non è attesa, cercata, voluta dall’uomo? Ma quale uomo può pienamente e continuamente desiderare una primavera che perfora la terra e trascina il folk lontano dalle case lungo le vie del cammino, insomma tutti noi Hobbits che, se ci va bene, scopriamo il nostro desiderio della strada giusto in tempo per aggregarci alla compagnia già avviata?

Il Bimbo che è Signore del mondo ha piegato i rami del ciliegio verso il ventre della madre vogliosa, ed annunciato, con la stessa semplicità, morte e resurrezione, come se fosse così facile come per la rugiada cadere su prato, fiore e ramo.

Nel verso di Eliot stanno veramente i morti che parlano, e se il Golden Bough e From Ritual to Romance dicono il vero, e se, come Eliot prosegue a dire in Tradition and the Individual Talent, l’ordine della tradizione si modifica ogni volta che un nuovo e veritiero elemento ne entra a far parte, il verso di apertura de The Waste Land è parte integrante dell’antropologia occidentale – che è cristiana, e che raggiunge anche l’oggi. 

Apre gli occhi alla speranza, quella difficile e vera; di un melo in fiore i cui frutti restano sempre non colti in un prato incolto, e a cui le montagne orgogliose si prestano a far da corona, in una mattina di aprile.