Si può dire, con un paradosso, che la ricchissima carriera drammaturgica di Luigi Pirandello si chiuda con una domanda – o, più probabilmente, con una perplessità, un’incognita che proprio per la sua insolubilità chiude (sente quasi l’istintivo bisogno di chiudere) un interrogativo che essa stessa aveva fatto nascere. Una perplessità, questa, espressa fin dal titolo di un dramma: Non si sa come. Ma attenzione: quella che nel titolo sembrerebbe la formulazione di un quesito (“non si sa come”) viene svolta invece, nel testo, come la risposta ad un quesito: una risposta che afferma appunto l’inconoscibilità del “come”. Ma qual è la domanda a cui Pirandello non riesce a rispondere, arrivando – lui, instancabile sistematizzatore del pensiero – ad archiviarla come un’impenetrabile incognita?
La trama di Non si sa come è, in realtà, molto semplice nel suo svolgimento. Un conte, Romeo Daddi, ha commesso adulterio insieme a Ginevra, moglie del suo migliore amico, Giorgio Vanzi. Un adulterio inspiegabile, essendo Romeo innamoratissimo della moglie Bice, così come Ginevra è innamorata del marito Giorgio. Un atto inconcepibile, avvenuto «al di fuori della coscienza», «un delitto per cui non c’è tribunali». Tuttavia, mentre Ginevra riesce ad autoassolvere il proprio tradimento, accettandolo come un passeggero attimo d’instabilità panica, Romeo è agitato da una domanda che sembra farlo impazzire: si possono commettere degli atti “malgrado la volontà”? Può la realtà di noi stessi accadere “malgrado noi”?
Romeo si trova quindi schiantato suo malgrado davanti al fatto che la volontà non è tutto, e che il perfetto controllo della propria vita e delle proprie azioni non è che una mera illusione. Lo spalancamento della domanda non potrà che risolversi in un tragico scioglimento: anziché accettare (come Ginevra) la coscienza di non appartenersi, Romeo precipita in un gorgo di gelosia, di sospetto, di condanna verso se stesso: come se l’individuo, svanita l’immagine di un sé assolutamente padrone delle proprie azioni, non fosse capace di sopportare la sola idea di costituire, lui, un mistero per se stesso. È questo lo scandalo che agita l’ultimo testo di Pirandello: lo scandalo del non appartenersi del tutto.
Tuttavia, un’annotazione del protagonista Romeo Daddi rivela un’indicazione in più: sono quei precisi momenti, quella non-appartenenza a sé, che svelano qualcosa di non nostro nella realtà – che mostrano anzi la realtà nella sua verità: «Tutti sanno che in cielo c’è la luna; e che sulla terra ci sono i boschi. Crediamo, almeno, di saperlo! Ma poi tutt’a un tratto ci accorgiamo di non averlo mai saputo veramente, se non quando ne abbiamo un sentimento vero, così raro che ce ne crea d’improvviso, misteriosamente, la realtà; e la scopriamo allora, la luna, il bosco, la luna che è quella, ora sì, la luna, il bosco, quello! È questa – questa dei sentimenti veri – misteriosi – la vera vita…».
Il sentimento, in Pirandello, non corrisponde all’emozione: il sentimento di cui qui si parla è una postura dello sguardo, è una particolare presenza di sé: una presenza non scontata e non meccanica; una presenza viva, tanto più “cosciente” quanto inaspettata, misteriosa, imprevedibile come una ferita: «Non ho saputo prevenire il terremoto! Non è umano prevenirlo; ed è divino farlo avvenire! (…) Noi siamo uomini, niente! Tutta la nostra sapienza, niente! Tutto ciò che ci avviene: la nostra nascita, i nostri casi, il nostro destino: com’è? Non sappiamo mai come. Oltre la vita umana, costruita da noi, c’è il mondo, il mistero eterno del mondo».
Davanti alla vertigine di una realtà che irrompe sino a questo punto, non restano che due alternative: o lo scandalo, disperatamente raccontato da Pirandello, dello scoprirsi uomini e del dover «imparare a non piangere» (il che costituisce già di per sé una forma di scioglimento tragico, quand’anche non si arrivasse al colpo di pistola), o il confronto, la lotta (una lotta che all’altezza dei Sei personaggi in cerca d’autore Pirandello credeva forse ancora di poter risolvere positivamente) con quell’emergenza umana che tanto spesso l’uomo percepisce come la propria caduta.