Subito dopo la scomparsa di una figura importante (culturale, artistica, politica ecc.) si apre una sorta di intervallo, tra i meritatissimi elogi nei giorni dei funerali e il momento, più tardi, dei bilanci propriamente critici; e in questo intervallo può situarsi la riflessione. Come si può cominciare a pensare a Ezio Raimondi, nato nel marzo del 1924 e scomparso nel marzo del 2014 sulla soglia dei novant’anni – originario dei dintorni di Bologna ma che a Bologna ha passato tutta la vita, italianista di rilievo non solo nazionale ma internazionale, uomo di punta all’università (inventore virtuale del dipartimento d’italianistica) e fuori (membro essenziale dell’Associazione e della casa editrice Il Mulino, presidente dell’Istituto per i Beni culturali dell’Emilia Romagna)? Si è parlato fin da subito (e si continuerà a parlare più analiticamente) della sua sconfinata erudizione unita a doti organizzative non comuni, della sua produttività di studioso e degli oggetti preferiti della sua critica.



Ma appunto: questi sono temi per futuri saggi, e non offrono né pretendono di offrire un ritratto. E invece la possibilità che a questo punto, nei giorni di una mancanza ancora per così dire presente, può essere colta è l’opportunità di tracciare il ritratto o più modestamente lo schizzo a matita (con tutti i suoi limiti d’impressionismo e le sue restrizioni prospettiche), di un grande personaggio le cui implicazioni non sono soltanto bolognesi ma riguardano ciò che resta oggi, in Italia e oltre, della cultura umanistica.



Ezio Raimondi è stato uno dei più alti testimoni di come i maggiori italianisti siano non-specialisti – più precisamente, di come la definizione di italianista vada preferibilmente insieme con quella di comparatista. La sua pionieristica familiarità con la lingua e la cultura letterario-filosofica tedesche, il suo culto della tradizione europea, le sue infaticabili proposte di traduzione di testi critici da più lingue, la sua profonda familiarità con la critica d’arte e la letteratura teatrale e cinematografica, i suoi contatti nordamericani, hanno consentito a Raimondi di realizzare brillantemente tale doppia definizione. Ma con questi elementi ci troviamo ancora in un ambito intellettuale (anche se non intellettualistico) e accademico: i tratti del ritratto restano un po’ sfocati; e invece la sfida attuale è quella di suggerire, a caldo e alla buona, quale fosse il fascino particolare di Ezio Raimondi. 



Egli era essenzialmente (essendone ben consapevole, e sfidando senza ambagi il rischio del narcisismo) un uomo di teatro: teatro, s’intenda, della parola critica – nelle aule di lezione, in quelle di conferenza, nei colloqui con colleghi e discenti. Non si trattava soltanto di una padronanza sintattica prodigiosa, che gli consentiva di parlare sempre e letteralmente come un libro stampato; ma anche di una capacità si può dire fisica di imprimere nello spirito dell’ascoltatore lo stile del suo eloquio. 

A riprova: la gran parte degli studenti di scuola raimondiana − studenti divenuti professori, in Italia e all’estero − sono riconoscibili anche per una certa elocuzione cristallinamente precisa fino alla meticolosità, impeccabilmente tornita. E, a ulteriore riprova: quelli di noi che hanno voluto uscire da questa vicinanza troppo stretta, hanno offerto a contrario, con la loro piccola e dolce ribellione, testimonianza della forza (quasi materiale, appunto) del suo insegnamento.

Inoltre (e questo non pare sia stato ancora sufficientemente messo in risalto): Raimondi − il severo studioso per eccellenza, che non risulta si sia mai cimentato in prove poetiche o narrative − aveva un senso acuto della cultura cosiddetta militante, e ha saputo coltivare con costanza, in vari suoi studenti, vocazioni poetiche (la carica che egli ricoprì di presidente del Centro di poesia contemporanea dell’Università di Bologna non era onorifica).

Infine, ma tutt’altro che secondariamente: Raimondi ha rappresentato il polo della moderazione negli anni (troppo) ruggenti − o corruschi, o rosseggianti che dir si voglia − in cui un certo estremismo era considerato quasi de rigueur fra i giovani e meno giovani intellettuali bolognesi. Molti di noi erano allora sinceramente, onestamente divisi tra il fascino quieto di Raimondi e il fascino di un battagliero marxismo declinato in varie modalità da altri mentori di grande prestigio e influsso a Bologna (anche se non bolognesi di nascita) come Francesco Leonetti, Roberto Roversi, Gianni Scalia e vari altri. Mentori, si badi, che non demeritavano certo di esserlo − e quelli di noi che hanno sperimentato tale divisione non hanno alcun motivo di vergognarsene. Ma è venuto il tempo di riconoscere la lungimiranza, in termini anche di politica culturale, di Ezio Raimondi: intellettuale non allineato, di inclinazione moderata, credente senza mai sbandierare la sua fede. Non è un cliché, allora, parlare della sua lezione come ancora attuale.