C’è una costante in quest’anno con Francesco, che spiega molte cose del suo Pontificato. L’attenzione alla parresia, come etica della verità, dell’adeguazione delle parole che si dicono alle cose che si fanno; a non farle restare nei “sepolcri imbiancati” della retorica; strategica o d’occasione, dello spazio politico, pubblico, o dell’occorrenza quotidiana, privata. Un’etica della verità che è anche pedagogia, magistero morale. In senso quasi del Foucault del corso al Collège de France, su Il governo di sé e degli altri: “La parresia è un atto direttamente politico che viene esercitato davanti all’Assemblea, o davanti al capo, o davanti al governante, o davanti al sovrano, o davanti al tiranno […] È un atto politico, ma sotto un altro aspetto, la parresia […], è anche un modo di parlare a un individuo, all’anima di un individuo: un atto che riguarda la maniera in cui quest’anima verrà formata”. 



Tra i tanti momenti di questo esercizio di parresia di Francesco in quest’anno, ne vorrei richiamare, per il suo rilievo non del tutto recepito, uno: due omelie, a ridosso di una visita al Quirinale, nel novembre dello scorso anno, sul tema della corruzione, e sulla differenza tra scandalo e peccato. “Putredine verniciata: questa è la vita del corrotto”, chi dà scandalo e non si pente. Così titolarono i media i report delle parole del Papa. I sepolcri imbiancati che professano un cristianesimo che non praticano, e fanno tanto male non solo agli altri, ma alla Chiesa. Cristiani corrotti, preti corrotti. Chi non ha nemmeno l’umiltà del peccatore che si sente tale, e si affida al perdono, provando e magari riprovando dal peccato a venir fuori. Raramente era stata denunciata con tanta forza da un Papa la doppiezza di un cristianesimo di facciata. E già sarebbe tanto. 



Ma di questi due interventi di Francesco che avevano a tema la corruzione pubblica e il furto allo Stato, che è furto ai più deboli, ai poveri, vorrei oggi richiamare qualcosa che mi sembra un breve, un seme di enciclica sociale in nuce assolutamente rivoluzionario, non pienamente notato. Una reinterpretazione, cioè, del “date a Cesare quel che è di Cesare” e “a Dio quel che è di Dio”, che non è sotto il segno di una mera separazione di sfere di diritto e di influenza tra la “città di Dio” e la “città degli uomini”, bensì di una loro cooperazione solidale in un’economia della salvezza dell’umano che con l’annuncio di Cristo comincia da subito, già da qui, dalle difficoltà materiali delle periferie del mondo, così care a Francesco; che magari abbiamo sotto casa, e che l’obolo privato non accompagnato da pubblica rettitudine offende ben più di quanto sovviene. 



Francesco ci ha dato (anche) con queste omelie sulla corruzione un’interpretazione “retta” dell’integralità della vita cristiana, che non è integralismo enunciativo di valori cristiani, ma integrità della vita del cristiano, dentro e fuori le mura di casa, nei suoi uffici e nei suoi doveri pubblici. E non c’è elargizione di pietà “privata” che possa far perdonare, a un cristianesimo di parole, la labilità dei propri comportamenti pubblici. Vi è additata un’integrità della vita cristiana che non distingue, perché non distinguibile, un’integrità “privata” della fede dalla sua testimonianza di integrità “pubblica”, di naturale estensione alla sfera delle relazioni sociali, dei diritti e dei doveri pubblici, del riferimento all’insegnamento cristiano. 

Ma allo stesso tempo Papa Francesco, in una temperie di crisi sociale e morale di cui non si possono ignorare le basi materiali di difficoltà e di umiliazione cui sono esposti i più deboli, con quelle omelie ha ricordato a tutti com’è da intendersi la missione dello Stato, della sfera pubblica nei suoi istituti politici se non vuole ridursi alla mera dimensione della potenza e della tenuta del “potere”: la tutela dei più deboli, dei poveri. Lo Stato nasce, o deve rinascere oggi, sull’efficacia pubblica dei suoi istituti di solidarietà sociale; ma questa efficacia si alimenta della lealtà a questi istituti dei cittadini. A questa lealtà i primi a non potersi sottrarre sono i cristiani: venendo ad essa meno, prima ancora che lo Stato, “frodano” la loro stessa presunta fede, i loro stessi valori, esponendoli alla pubblica delegittimazione. E dando scandalo, non solo peccando. 

Un discorso forte. Per la prima volta abbiamo un Papa che più che preoccuparsi dell’otto per mille, della decima al Tempio, si preoccupa di tutto il resto, dei nove decimi allo Stato, al “pubblico” e all’esercizio, per cui deve avere i mezzi, della sua immanente finalità etico-politica. Da tempo, ancorché in crisi, questa finalità si chiama welfare, che può e deve essere sì integrata ma non sostituita da quale che sia esercizio di pietà privata; massime quando sia obolo compensativo di una disonestà pubblica. 

Una politica e una società che meditino queste parole, sapranno trovare un’anima. È in questa chiave che credo volesse proporsi l’appello comune di quei giorni di novembre con il presidente Napolitano – rivolto al Paese e alla politica – alla concordia e al dialogo; a un contesto di lealtà civica e politica allo Stato come presidio delle ragioni di tutti, e come unico viatico per uscire dalla crisi economica e sociale; logica e immediata applicazione, nella visita al Quirinale, all’agenda politica italiana della nuova sollecitudine sociale della Chiesa di Francesco, anche per il Paese dove è giunto chiamato dalla “fine del mondo”.

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