Il “Movimento dei Forconi”; il plebiscito di indipendenza on line; il via libera della Commissione regionale affari istituzionali al doppio referendum su autonomia e/o secessione; i comuni bellunesi che tentano di passare al Trentino. Infine, gli arresti degli indipendentisti che sarebbero stati sul punto di mettere in atto un’azione sul modello dell’occupazione del campanile di San Marco nel 1997. Sullo sfondo, capannoni in vendita, villette incompiute, disoccupazione a due cifre.
È solo questo il Veneto? Risiede solo in un malessere economico la ragione di una protesta che per vie differenti emerge con forza imprevista? I soldi giocano certo una parte decisiva. Basta girare qualsiasi periferia per osservare una sorta di archeologia del benessere recente, fatta di villini, fabbriche, aziende, negozi… Il riscatto dall’emigrazione e dal tòpos del Veneto “tre volte bòn che fa rima con coiòn”, il benessere costruito mattone dopo mattone, mangiando pane e mortadella e spaccandosi la schiena senza chiedere niente a nessuno, dimenticando le ferie e le vacanze, “muso duro e bareta fracà”: tutto ciò è memoria, anzi epica, che si respira in moltissime famiglie.
Una locomotiva a pieno regime, che doveva portare alle ultime generazioni un’eredità di benessere e crescita, si è schiantata contro il muro della crisi, delle banche che non concedono prestiti, dello Stato che pignora. Ma questo scenario non è solo veneto: nel 2013, ad esempio, sono state le regioni del Nord Ovest a registrare il maggior numero di suicidi legati a fallimenti o difficoltà economiche (con il non invidiabile primato di 35 morti contro i 32 del Nord Est).
Bisogna scavare più a fondo, cercare anche altrove le cause del problema. Se infatti esiste un luogo comune, alquanto fastidioso per noi veneti, che ci vuole ossessionati “dai schei”, sempre intenti a lavorare, sacrificando famiglia e tempo libero al mito del “self-made man”, bisogna ricordare che questa terra è legata a doppio filo all’associazionismo (cattolico e non), al mondo del volontariato, alla gratuità.
Dove alligna il malcontento, se non di soli soldi stiamo parlando? Parto dall’ovvio: non esiste un risentimento, perché non esiste un Veneto, né in senso geografico, né in senso linguistico, né in senso socio-spaziale.
Tali distinzioni hanno radici profonde: la Repubblica era un’oligarchia fortemente accentrata nella Laguna, nelle mani di poche famiglie patrizie, refrattaria, salvo casi di esplicita necessità (come la crisi demografica susseguente alla peste del 1630, o l’esigenza di liquidità nelle casse dello Stato che portò talvolta all’apertura del Libro d’Oro), ad una co-gestione politica con le forze emergenti della terraferma. Soffermandoci sull’ultimo scorcio di storia della Repubblica, scopriamo uno Stato che nel 1749 pativa un debito di ottanta milioni di ducati, e nel 1767 ricorse ad una bancarotta parziale per sanare un po’ le cose. Il tutto in un secolo che, tra l’invasione turca della Morea nel 1715, l’istituzione dei portifranchi di Trieste e Fiume nel 1719 da parte dell’Austria, e di quello di Ancona nel 1732 da parte del Papato, vide un indebolimento di San Marco nel Mediterraneo.
E poi Venezia restò sempre Stato da Mar: per quanto sulla terraferma l’agricoltura e l’artigianato avessero preso importanza, il suo dna istituzionale portava verso l’Adriatico. Infatti, da un lato è lungo le coste dalmate che si trovano le cittadine più “veneziane” da un punto di vista architettonico e urbanistico; poi, ancora nel 1786 il Bailo a Costantinopoli informava che la metà delle navi che transitavano nel Bosforo erano veneziane; infine, nel 1797 vi fu chi, come il procuratore Francesco Pesaro, suggerì al Doge di trasferire la macchina pubblica a Zara, lontano dalla buriana.
Venezia non era uno Stato perfetto, un’Utopia degna di Platone o Campanella. Basta sfogliare l’elenco dei Dogi, degli Avogadori, dei Pregadi, per capire che la gestione del potere era poco veneta, e molto, anzi moltissimo, veneziana. Anche San Marco aveva la sua “casta”.
Volendo addentrarci, solo per un attimo, nel terreno scivoloso delle tradizioni, basterebbe chiedere a qualche “vecio” di Padova o di Rovigo cosa ne pensa dei veneziani (e viceversa!) per capire che è ancora viva nella memoria popolare una dialettica accesa tra i “gran siori” di Rialto e il resto delle terre di San Marco.
Arrivando ad oggi, la molteplicità del Veneto e dei veneti, che rende sfuggente e sfrangiato il macrocosmo delle rivendicazioni, risiede anche nella mancanza di un centro. Il Veneto non ha quello che Milano rappresenta per la Lombardia. Venezia per molti aspetti è più provinciale di Padova o di Verona. La difficoltà a gestire spazi e servizi nella città lagunare, unita al fatto che il boom economico del secondo dopoguerra toccò meno questa regione, impedì (fortunatamente, aggiungo) la costituzione di una metropoli stricto sensu.
Il Veneto è una struttura reticolare di servizi diffusi. Basta salire sul Monte Grappa una notte d’inverno, quando la Bora soffia via la nebbia, e lo sguardo abbraccia la pianura dalle Piccole Dolomiti ad ovest fino alla laguna di Venezia ad est: non esistono più centri e periferie: il Veneto centro-settentrionale è un’unica grande macchia di luce, una rete infinita di case, strade, centri commerciali, zone industriali. Una Los Angeles post-moderna.
Forse è questa la radice del nostro disagio. Non ci riconosciamo più in spazi che ci sono cambiati addosso, e questo disorienta e impaurisce. Seguendo il miraggio del benessere abbiamo sacrificato alle lottizzazioni, alle superstrade e ai grandi discount un territorio, ricco e variegato, e un senso di appartenenza.
Non è un caso che le istanze di autonomia da noi procedano, spesso, accompagnate dalla rivendicazione (a mio avviso in parte legittima) della dignità dei dialetti, delle tradizioni linguistiche venete su una recenziore cultura “italocratica” che ha fatto della parlata dei nostri nonni una lingua “da contadini ignoranti”. I fautori della rinascita della Serenissima però, nel momento in cui propongono la riaffermazione della lingua veneta, chiamano in causa un fantasma mai esistito. Il veneto, come la pantera dantesca, lascia il suo profumo ovunque, ma non si fa mai scovare, e il discorso vale sia per la lingua orale che per i codici letterari.
Non solo. Nella provincia friulana il dialetto sopravvive parlato nelle famiglie anche dai più giovani. Nelle scuole della provincia di Treviso e di Vicenza in cui ho insegnato avrò incontrato sì e no tre o quattro adolescenti che sapessero e volessero parlare dialetto. Vogliamo dare la colpa a Manzoni? Ai Savoia? O piuttosto a generazioni che hanno ceduto a una sorta di complesso di inferiorità, abbracciando l’italiano come lingua dell’affrancamento sociale dal provincialismo veneto, sentito come limite e non come ricchezza?
Si sono rotti equilibri delicati. La provincia dei campanili, il Veneto dei seminari stracolmi e delle chiese affollate era, di fatto, una rete cellulare in cui i microcosmi, narrati con maestria da Meneghello e celebrati da Zanzotto, pur restando geograficamente e linguisticamente distinti, si riconoscevano in un mos maiorum (l’auctoritas della Chiesa, la sacralità del verbum dei “veci”) e in un èpos (la Grande Guerra, la Resistenza, l’emigrazione) che fungevano da tessuto connettivo e da sostrato comune.
Oggi dalle parrocchie si è passati alle zone industriali, dall’identità comunale all’anonimato suburbano, dal ricco sottobosco alla monocoltura di piantagione. E questo, purtroppo, è responsabilità diretta non di Roma, non dell’euro, non degli immigrati, ma di chi in questa regione ha vissuto e agito negli ultimi cinquant’anni.
La colpa di ciò che il Veneto è oggi, è, prima di tutto, nostra.
Orfano di identità e distinzioni, incrinato nella fede, periferico non più solo rispetto ai centri d’Italia, ma rispetto a se stesso, spappolato in un melting-pot di periferia industrial-residenziale, il Veneto, per un po’, ha creduto di farcela. Oggi piangiamo, in tanti modi (tanko compreso), sulle spoglie di una terra-madre (ma anche di una lingua-madre) che noi stessi abbiamo contribuito ad eliminare. Se arrivasse l’indipendenza, non avremmo più alibi: dovremmo riprenderci, assieme ai soldi che paghiamo anche per alimentare le sperequazioni che di fatto esistono, le responsabilità di quello che questa terra è diventata, senza più poter incolpare Roma o il Sud. Dovremmo fare i conti con le molteplicità, indistinte e mescolate, che qua e là, tra un parcheggio e un outlet, ancora ci chiamano, tra il muro del cimitero vecchio e un filare di gelsi miracolosamente sopravvissuti, e ci sussurrano ciò che eravamo, ciò che non siamo più.