Il 1° maggio del 2011 a Roma veniva beatificato Giovanni Paolo II, proclamato santo meno di una settimana fa. In occasione della Festa del lavoro può essere utile quindi vedere cosa Karol Wojtyla, soprannominato il Papa operaio, ha scritto in tema di lavoro. Giovanni Paolo II ha scritto tre encicliche sociali: Laborem exercens; Sollicitudo rei socialis; Centesimus annus. Il profilo logico delle tre encicliche deve considerarsi unitario e per questa motivazione è possibile esaminare i contenuti che riguardano il lavoro in maniera contestuale. Nella prima enciclica il lavoro è esaminato come “la chiave essenziale di tutta la questione sociale, se cerchiamo di vederla veramente dal punto di vista del bene comune” (3), anche se “non è possibile comprendere l’uomo partendo unilateralmente dall’economia” (Centesimus annus, 24); questo perché ciascuna persona umana deve sistematicamente ponderare il rapporto tra il suo bene e quello di tutti, in quanto tutti i beni, sia quelli naturali che quelli che derivano dal lavoro, devono “servire egualmente il bene di tutti” (Sollicitudo rei socialis, 39).



Quanto premesso comporta che “le fonti della dignità del lavoro si devono ricercare soprattutto non nella sua dimensione oggettiva, ma nella sua dimensione soggettiva” (Laborem exercens, 6). “Il lavoro è un bene dell’uomo – è un bene per la sua umanità – perché mediante il lavoro l’uomo non solo trasforma la natura adattandola alle proprie necessità, ma anche realizza se stesso come uomo e anzi, in un certo senso, diventa più uomo” (L. ex., 9). Se il fondamento del lavoro è l’uomo, ne consegue che non è possibile considerare lui e il suo operato alla stregua di un qualsiasi fattore della produzione così come fanno “le varie correnti del pensiero materialistico ed economicistico” (L. ex, 7) per cui gli strumenti della produzione che costituiscono il capitale vengono dopo il lavoro.



La priorità del lavoro rispetto al capitale origina dalla circostanza che “il lavoro è sempre una causa efficiente primaria, mentre il ‘capitale’, essendo l’insieme dei mezzi della produzione, rimane solo uno strumento o la causa strumentale. Questo principio è verità evidente che risulta da tutta l’esperienza storica dell’uomo” (L. ex., 12). Tutto questo anche alla luce del fatto che “tutti i mezzi di produzione, dai più primitivi fino a quelli ultramoderni, è l’uomo che li ha gradualmente elaborati: l’esperienza e l’intelletto dell’uomo […]. Così tutto ciò che serve al lavoro, tutto ciò che costituisce – allo stato odierno la tecnica – il suo ‘strumento’- è nato dal lavoro e porta su di sé i segni del lavoro umano […]. Questo gigantesco e potente strumento – l’insieme dei mezzi di produzione che sono considerati, in un certo senso, come sinonimi di ‘capitale’ – è nato dal lavoro e porta in sé i segni del lavoro umano”. (L. ex., 12).



Stabilita in questa maniera la priorità del lavoro rispetto al capitale, Giovanni Paolo II esamina il conflitto che storicamente si è innescato fra questi due primari fattori della produzione: “Tale conflitto è stato originato dal fatto che i lavoratori mettevano le loro forze a disposizione del gruppo degli imprenditori, e che questo, guidato dal principio del massimo profitto della produzione, cercava di stabilire il salario più basso possibile per il lavoro eseguito dagli operai. A ciò bisogna aggiungere anche altri elementi di sfruttamento, collegati con la mancanza di sicurezza nel lavoro e anche di garanzie circa le condizioni di salute e di vita degli operai e delle loro famiglie” (L. ex., 11). L’accento è posto sul punto più caldo, quello che ha determinato il conflitto ideologico-sociale “tra il liberalismo, inteso come ideologia del capitalismo, e il marxismo, inteso come ideologia del socialismo scientifico e del comunismo”. (L. ex., 11).

Tralasciamo le ampie critiche che Giovanni Paolo II ha effettuato verso il marxismo, rivolgiamo la nostra attenzione sulle critiche che egli avanza nei confronti del capitalismo, anche perché ci sembrano utili per la comprensione dell’attuale congiuntura economica. In questa interpretazione ideologica l’etica del massimo profitto possibile è l’unica che possa fattivamente essere perseguita senza recare danno all’impresa. Questo perché gli “affari sono gli affari” e tutto il resto deve essere disponibile ad assecondare quest’unica postulazione. Il liberalismo ha sempre creduto necessario, in quanto eticamente corretto, anteporre le esigenze del capitale a quelle di tutti gli altri fattori produttivi, compreso il lavoro che veniva a essere considerato una merce tra le altre merci. Per il liberalismo il capitale è il momento costituente (quello che da vita) e propulsivo (quello che mantiene in vita) dell’economia dei sistemi aziendali. Il capitale ha il primato rispetto al lavoro, il quale, di fatto, deve essere appiattito nei termini delle sue posizioni contrattuali, che il potere, diretto indiretto del capitale ha perimetrato.

Tutto questo fa affermare a Giovanni Paolo II: “Nonostante i grandi mutamenti avvenuti nelle società più avanzate, le carenze umane del capitalismo, con conseguente dominio delle cose e degli uomini, sono tutt’altro che scomparse; anzi, per i poveri alla mancanza di beni materiali si è aggiunta quella del sapere e della conoscenza.” (C.a., 33). Per cui, “se certe forme di ‘imperialismo’ moderno si considerassero alla luce di questi criteri morali, si scoprirebbe che sotto certe decisioni, apparentemente ispirate solo all’economia o alla politica, si nascondono vere forma di idolatria: del denaro, dell’ideologia, della classe, della tecnologia” (S.r.s., 37).