L’educazione è la grande sfida che tutti abbiamo davanti. Non per niente si parla di “emergenza educativa”. Educare è sempre stato decisivo per introdurre alla vita le nuove generazioni. Cosa c’è ora di diverso rispetto al passato? Perché oggi si parla in termini così drammatici di emergenza educativa? Solo rispondendo a queste domande possiamo capire la portata del contributo che ha offerto a questo problema papa Francesco fin da quando era ancora arcivescovo di Buenos Aires. Qual è la sfida che abbiamo davanti?
In un articolo pubblicato su la Repubblica qualche anno fa sulla generazione dei giovani d’oggi dal titolo «Gli eterni adolescenti», Pietro Citati scriveva: «Un tempo si diventava adulti prestissimo. Oggi c’è una continua corsa all’immaturità. Un tempo a tutti i costi un ragazzo diventava maturo, conquistare la maturità era una rinuncia. I giovani di oggi non sanno chi sono. Forse non vogliono saperlo. Si chiedono sempre quale sia il loro io, amano l’indecisione! Non dire mai sì e mai no: sostare sempre davanti a una soglia che, forse, non si aprirà mai. Non hanno volontà, non desiderano agire. Preferiscono restare passivi e vivono avvolti in un misterioso torpore. Non amano il tempo.
L’unico loro tempo è una serie di attimi, che non vengono legati in una catena o organizzati in una storia». A questo articolo aveva fatto seguito una risposta di Eugenio Scalfari, sempre su la Repubblica, il quale sosteneva che in questi giovani la ferita è consistita nella perdita dell’identità e della memoria: «La ferita è stata il silenzio dei padri, troppo impegnati nella conquista del successo e del potere. La ferita è stata la noia, l’invincibile noia, la noia esistenziale che ha ucciso il tempo e la storia, le passioni e le speranze. Non vedo in loro quella profonda melanconia che c’è nei giovani volti del Rinascimento dipinti da Tiziano. Io vedo occhi stupefatti, estatici, storditi, fuggitivi, avidi senza desiderio, solitari in mezzo alla folla che li contiene. Io vedo occhi disperati. […] Eterni bambini. […] Una generazione disperata […] che avanza. Cercano di uscire da quel vuoto di plastica che li circonda e li soffoca.
La loro salvezza sta soltanto nei loro cuori. Noi possiamo soltanto guardarli con amore e trepidazione».2 Un educatore, con una lunga esperienza di rapporto con i giovani, Luigi Giussani, usava una immagine per descrivere questo “misterioso torpore”: «È come se i giovani di oggi fossero tutti stati investiti […] dalle radiazioni di Chernobyl: l’organismo, strutturalmente, è come prima [non si vede alcun apparente cambiamento], ma dinamicamente non è più lo stesso [come se l’organismo non avesse più energia, per effetto delle radiazioni] […] È come se non ci fosse più nessuna evidenza reale se non la moda, perché la moda è [uno strumento] un progetto del potere».3 La conseguenza della debolezza descritta è che, dice sempre don Giussani, «non è assimilato veramente quello che si ascolta o si vede.
Ciò che ci circonda, la mentalità dominante […], il potere, realizza [in noi] un’estraneità da noi stessi» – è come se ci strappassero di dosso il nostro essere –. «Si rimane, da una parte, astratti nel rapporto con se stessi [non solo con gli altri, ma anche con se stessi; basta pensare a quanto tempo uno è in grado di rimanere solo con se stesso, per un momento di silenzio; dobbiamo subito fuggire, subito distrarci, c’è come un’incapacità a stare con noi stessi come se si fosse a casa propria], come affettivamente scarichi» La estraneità a noi stessi diventa estraneità a tutto: niente riesce veramente a interessarci.
E allora il disinteresse prende il sopravvento. A questa situazione non si può immaginare di rispondere con delle regole oppure con appelli etici, perché questi si sono già dimostrati inefficaci. Non riescono a mettere in moto il soggetto da educare, non sono in grado di destare l’interesse dell’io. E senza la mossa dell’io non c’è educazione. Da dove ripartire, allora, in questa situazione? Malgrado tutto, nell’uomo rimane quel “punto infiammato” dell’animo di cui parlava Cesare Pavese.Ed è intorno a questo punto infiammato che può ruotare una proposta veramente corrispondente all’umano. Lo ha colto molto bene papa Francesco, identificando con chiarezza qual è il punto infiammato: «L’uomo non è un essere tranquillo nei propri limiti, bensì un essere “in cammino” […] e quando non entra in questa dinamica, si annulla come persona o si corrompe. Il mettersi in cammino è dovuto a un’inquietudine interiore che spinge l’uomo a “uscire da sé”. […] C’è qualcosa, fuori e dentro di noi, che ci chiama a compiere il cammino».Quella inquietudine, di agostiniana memoria, rimane in fondo all’essere dell’uomo.
Questa inquietudine è l’origine del desiderio, il punto infiammato del cuore. Ma è sempre in atto il tentativo di anestetizzare il desiderio: «I sistemi mondani cercano di acquietare l’uomo, di anestetizzarne il desiderio di mettersi in cammino, con proposte di possesso e consumo […]. In questo modo l’uomo è alienato dalla possibilità di riconoscere e ascoltare il più profondo desiderio del suo cuore. Richiama l’attenzione la grande quantità di “alibi” che manipolano il desiderio […] e offrono, in cambio, una pace apparente. […] gola, lussuria, avarizia, ira, invidia, tristezza, accidia, vanagloria, superbia. […] sono di certo pretesti, scappatoie che nascondo qualcos’altro: la paura della libertà […]. servono da rifugio. Il fondamentalismo si organizza a partire dalla rigidità di un pensiero unico, all’interno del quale la persona si protegge dalle istanze destabilizzanti (e dalle crisi) in cambio di un certo quietismo esistenziale». In questo contesto, l’allora arcivescovo Bergoglio avvertiva gli educatori che occorre fare attenzione a non utilizzare alcuno degli strumenti educativi per ridurre il desiderio: «La disciplina è un mezzo, un rimedio necessario al servizio dell’educazione integrale, ma non può trasformarsi in una mutilazione del desiderio. […] Il desiderio si contrappone alla necessità. Quest’ultima è soddisfatta non appena la carenza viene colmata; il desiderio, invece, è la presenza di un bene positivo e sempre si accresce, si struttura e mette in moto verso un «di più».
Il desiderio di verità procede «da incontro a incontro».8 Il noto psicoanalista Massimo Recalcati osserva, in proposito, che «il desiderio non può essere schiacciato sulla mera soddisfazione dei bisogni, ma si rivela diverso dalla brama bestiale proprio in quanto animato da una trascendenza che lo apre all’inedito, al non ancora conosciuto, al non ancora pensato, al non ancora visto». Dunque, la grande sfida per un educatore è proprio come risvegliare il desiderio. «Come insegnare ai nostri alunni a non aver paura di cercare la verità? Come educarli alla libertà? […] Come fare in modo che i nostri ragazzi […] diventino “inquieti” nella ricerca?». C’è un solo modo: introducendo i ragazzi al rapporto con la realtà. Ma i giovani non sono interessati a questo rapporto, per quel misterioso torpore che diviene noia invincibile. Perché manca questo interesse, perché è così difficile che i ragazzi si interessino a qualcosa nel reale, perché è così difficile trovare adulti che a quaranta e cinquanta anni non siano ormai scettici? Scrive don Giussani: «Le capacità che sono in noi non solo non si sono fatte da sé, ma anche non si traducono in atto da sole. Sono come una macchina che, oltre ad essere stata costruita da altri, ha bisogno anche di un altro che la metta in marcia, che la faccia funzionare. Ogni capacità umana, in una parola, deve essere provocata, sollecitata per mettersi in azione».
Qual è il problema? Una filosofa spagnola, María Zambrano, fa capire la portata della situazione: «Ciò che è in crisi è il nesso misterioso che unisce il nostro essere con il reale, qualcosa di così profondo e fondamentale che è il nostro più intimo sostentamento».12 Ciò che è in crisi è il nesso con il reale. E questo si vede dal fatto che non riesce a interessare, che il reale non è in grado tante volte di trascinare l’io. E perciò, se non c’è niente che veramente ci interessi, la noia vince. Perché senza che niente possa interessare, essendo questo rapporto con il reale il sostento dell’io, della persona, resta solo la noia. Sembra paradossale, perché oggi nessuno direbbe che i giovani non si interessino a niente. Anzi, sembrano interessarsi a tutto, mai come adesso hanno avuto tante possibilità; perché, allora, finiscono nella passività e nella noia? Perché senza significato la realtà perde il suo interesse. Ecco, dunque, lo scopo di un’educazione adeguata alla gravità del problema: educare è introdurre il giovane alla realtà totale.
Lo ha indicato al mondo della scuola papa Francesco sabato scorso: «Amo la scuola perché è sinonimo di apertura alla realtà. […] Andare a scuola significa aprire la mente e il cuore alla realtà, nella ricchezza dei suoi aspetti, delle sue dimensioni. E noi non abbiamo diritto ad aver paura della realtà!». Come si può ben capire, questo è un problema che riguarda tutti: associazioni, scuole, Chiesa, partiti politici, perché non si tratta di un problema particolare, ma del problema dei problemi: come ristabilire il nesso con il reale, se c’è qualcosa in grado di ridestare l’interesse dell’io. Per interessare occorre un’educazione che introduca al reale. Jungmann, definiva l’educazione come «introduzione alla realtà totale». Perché senza affermare il significato, una persona non si interessa alla realtà. Facciamo un esempio. Se noi adulti regaliamo al bambino un giocattolo che vede per la prima volta, se noi lo lasciamo da solo, si stupisce davanti ad esso, ma come può essere introdotto a capire cos’è quel giocattolo? Di solito ci sono le istruzioni per l’uso, che è come dire al bambino: se lo usi così, imparerai a usarlo, e potrai godere di come funziona. Sarebbe inumano regalare a un bambino un giocattolo e non introdurlo al suo funzionamento. Senza offrirgli una ipotesi di come si usa, lo abbandoneremmo alle sue reazioni: pianto, noia. L’incapacità di introdurre alla totalità della realtà non è indifferente per la nostra relazione con essa. Diceva Einstein: «Chi non ammette l’insondabile mistero non può essere neanche uno scienziato».15 Senza percepire il significato, la realtà non ci commuove fino al punto di risultare interessante. Questa è l’origine del nichilismo, di quell’atteggiamento che finisce nella noia perché niente desta il mio interesse. Pensavamo che la realtà potesse continuare a essere attraente senza significato, ridotta solo alla trasmissione di conoscenze, di dati, ma questo non è bastato per continuare a interessare i giovani. E gli adulti. Con la realtà ridotta a niente, senza significato, è apparsa una nuova forma di nichilismo, sulla quale ha richiamato l’attenzione anni fa il grande filosofo Augusto Del Noce: «Il nichilismo oggi corrente è il nichilismo gaio, [nel senso che] è senza inquietudine (forse si potrebbe [addirittura] definirlo per la soppressione dell’inquietum cor meum agostiniano)».
Non si desta il desiderio, non si desta la curiosità. Ora, soltanto chi riesce a interessare potrà dare un contributo alla situazione drammatica in cui noi ci troviamo. Da dove ripartire, dunque? Dalla realtà. Ma la realtà non può essere ridotta alla apparenza, perché altrimenti ci stanca, ci fa diventare aridi, perché non riesce a prenderci, ad interessarci per molto tempo. La realtà desta un interesse per l’attrattiva della bellezza. Lo riconosceva Jorge Mario Bergoglio: «Quanti razionalismi astratti e moralismi “estrinsecisti” sarebbero curati […] se cominciassimo a pensare la realtà in primo luogo come bella, e solo dopo come buona e vera!».
Parlando sempre al mondo della scuola, papa Francesco ha detto che essa «educa al vero, al bene e al bello. Vanno insieme tutti e tre. L’educazione non può essere neutra. O è positiva o è negativa; o arricchisce o impoverisce; o fa crescere la persona o la deprime, persino può corromperla. […] La missione della scuola è di sviluppare il senso del vero, il senso del bene e il senso del bello. E questo avviene attraverso un cammino».18 La realtà suscita domande. Ricordo ancora, dopo tanti anni, l’impressione che mi ha fatto l’avere portato i miei studenti di liceo al planetario di Madrid. Dopo la visita siamo tornati a scuola e ho cominciato a domandare che cosa li avesse impressionato di più di tutte le cose viste, le stelle, le galassie eccetera. Nessuno era colpito del numero delle stelle, oppure domandava quante galassie ci siano, ma tutti, colpiti da quello che avevano visto, hanno riempito la lavagna di domande come queste: ma chi ha fatto tutto questo? Siamo noi i padroni di questo? Qual è il senso di tutto questo? Quale ne è lo scopo? Questo è il problema: che a noi è stato regalato il giocattolo più bello che è la vita, tutto il cosmo, ma non siamo venuti al mondo con le istruzioni per l’uso sotto il braccio: per questo ci domandiamo come si vive, come si impara a godere della vita, come si impara ad affrontare adeguatamente la realtà, affinché la vita sia veramente vita, intensamente vissuta, affascinante da vivere. C’è bisogno di una ipotesi di lavoro: «Educare alla ricerca della verità, dunque, esige uno sforzo di armonizzazione tra contenuti, abitudini e valutazioni. […] Per raggiungere tale armonia non bastano le informazioni o le spiegazioni. […] È necessario offrire, mostrare una sintesi vitale di essi».
A questo livello si pone la necessità di un testimone. Dice, infatti, papa Francesco: «Questo può farlo solo il testimone. Entriamo così in una delle dimensioni più profonde e belle dell’educatore: la testimonianza. È quest’ultima a consacrare come “maestro” l’educatore e a renderlo compagno di strada nella ricerca della verità.
Il testimone con il suo esempio ci sfida, ci rianima, ci accompagna, ci lascia camminare, sbagliare e anche ripetere l’errore, affinché cresciamo. Educare […] esigerà da voi, cari docenti, […] “saper rendere ragione”, però non solo con spiegazioni concettuali e contenuti isolati, ma con comportamenti e giudizi incarnati. […] Tutto diventa interessante, attraente, e finalmente suonano le campane che risvegliano la sana “inquietudine” nel cuore dei ragazzi. Il caso paradigmatico del maestro-testimone è lo stesso Gesù». E Recalcati aggiunge: «Per farsi umana la vita necessita della presenza presente dell’Altro. […] Se questo incontro non si verifica la vita è esposta alla dissociazione dal senso, appare come vita senza senso».21 Infatti, «come avviene la trasmissione del desiderio da una generazione all’altra? Attraverso una testimonianza incarnata di come si può vivere la vita con desiderio». Per questo la testimonianza non è possibile senza che gli educatori prendano sul serio innanzitutto la propria inquietudine: «Educare è di per sé un atto di speranza. […] Cari educatori, […] vi auguro che l’inquietudine, immagine del desiderio che muove tutta l’esistenza dell’uomo, apra il vostro cuore e vi indirizzi verso la speranza che non tradisce. E che, come educatori, vi trasformiate in testimoni autentici, vicini nella prossimità a tutti».23 Sabato a Roma il Papa ha detto: «I ragazzi capiscono, hanno “fiuto”, e sono attratti dai professori che hanno un pensiero aperto, “incompiuto”, che cercano un “di più”, e così contagiano questo atteggiamento agli studenti». Da qui nasce la nostra responsabilità. Per poter rispondere ad essa occorre non soccombere alla tentazione di disperare, come ci ricorda ancora papa Francesco: «La tentazione è un invito a fermare la marcia, a di-sperare.
Come si fa a non cadere, quando sono già cadute tante e tante utopie? […] La tentazione è seria e il suo potere reale è ben conosciuto da chiunque abbia coraggiosamente seguito il proprio cuore. […] Solo costui conosce la difficoltà e la profonda problematicità del suo desiderio. […] In questo contesto […] ogni educatore è tentato di disperare». Noi adulti dobbiamo riconoscere che non sempre siamo stati all’altezza di quella esigenza. «Guardiamo i giovani. […] Li prepariamo per grandi orizzonti o per l’orizzonte dietro l’angolo? […] Vogliamo chiedere perdono ai ragazzi perché non sempre li abbiamo presi sul serio. Perché non sempre diamo loro gli strumenti affinché il loro orizzonte non si esaurisca dietro l’angolo, perché molte volte non siamo capaci di entusiasmarli con orizzonti più ampi che facciano loro apprezzare quello che hanno ricevuto e che devono trasmettere. Perché molte volte non abbiamo saputo farli sognare! […]
E quando i ragazzi vedono da parte nostra, di noi dirigenti, una testimonianza di bassezza, allora non hanno il coraggio di sognare, allora non hanno il coraggio di crescere. […] Se non saremo in grado di testimoniare questa capacità di orizzonte e di lavoro, la nostra vita terminerà in un angolo dell’esistenza, a piangere lacrime amare sul nostro fallimento come educatori e come uomini e donne». Concludo con le parole di papa Francesco che suonano come un appello urgente alla responsabilità: «Che essi [i giovani] possano apprendere dalla nostra testimonianza – poiché si insegna più con l’esempio che con le parole – la feconda cultura della vita. […]
Non solo le droghe uccidono, non solo le droghe generano la cultura di morte; lo fanno anche l’egoismo del cuore di tutti noi che abbiamo la responsabilità di educare, le nostre chiusure, il disinteresse con cui passiamo vicino a qualcuno che è rimasto bloccato sul bordo della vita, senza insegnargli a uscire dalla sua immobilità per avvicinarsi alla vita».
(L’intervento di don JULIAN CARRON al salone del libro di Torino per la presentazione del libro “La bellezza educherà il mondo” scritto da papa Francesco)