Ho riletto in questi giorni alcuni dei principali scritti di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI sul potere, la politica e la legge, mirabilmente raccolti in un volume da Stefano Fontana (J. Ratzinger-Benedetto XVI, Il posto di Dio nel mondo. Potere, politica, legge, Edizioni Cantagalli). Ad accompagnarmi in questa lettura un’immagine e un pensiero fisso. L’immagine è quella di Benedetto XVI, ormai papa emerito, avvolto nella sua bianca e quasi commovente fragilità. Il pensiero fisso è quello di una straordinaria forza spirituale e intellettuale, la cui luce abbagliante sembra come tenuta a bada per consentirle di illuminare almeno quel poco che il nostro tempo riesce a comprendere e di cui ha bisogno, in attesa (ci vorranno molti anni) che se ne schiuda tutta la portata teologica, filosofica e politica.
La raccolta, divisa in tre parti, non segue un criterio cronologico, bensì sistematico. La prima parte è intitolata “Il potere politico e la legge del creato”, la seconda “La ragione pubblica e la fede cristiana”, la terza “L’universalità della famiglia umana e i diritti delle persone e dei popoli”. Si incomincia con il celebre discorso tenuto al Bundestag nel 2011 e si finisce con quello tenuto al Santuario di Mariazell, in Austria, nel 2007. In mezzo i discorsi tenuti a Londra, a Parigi, alle Nazioni Unite, la discussione con Habermas, il discorso non tenuto all’Università di Roma e altri ancora, nonché alcune splendide riflessioni sulla teologia di Agostino e il suo rapporto con la realtà politica. Debbo dire che, pur trattandosi di testi già noti, il leggerli tutti insieme li rende ancora più belli e significativi, non fosse altro perché fa emergere con grande chiarezza quello che potremmo definire il presupposto fondamentale che li sostiene: cercare Dio, il Dio di Gesù Cristo, equivale a venire in chiaro con l’uomo stesso. Dio non è un di più di cui la ragione umana potrebbe anche fare a meno; è piuttosto la condizione che rende ragionevole la stessa ragione e tutto ciò che l’uomo è in grado di costruire, inclusa la città e le sue leggi. È alla luce di questo presupposto che vengono illuminate le principali sfide politiche del nostro tempo. Non per proporre una teologia politica, ma semplicemente per mostrare quanto sia pericoloso per la politica dimenticarsi di Dio e della costitutiva trascendenza dell’uomo.
Di qui il richiamo continuo da parte di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI ad alcuni temi cruciali, che in questa sede possono essere soltanto sfiorati, ma che sappiamo essere al centro del nostro dibattito pubblico da molti anni: l’inviolabile dignità della persona umana, la legge naturale, il valore della democrazia, il significato della libertà.
Tutti temi affrontati con uno stile comunicativo aperto, rispettoso, delicato, alieno da qualsiasi cedimento alla polemica o allo stereotipo, trepidante forse di non riuscire a comunicare la verità in modo convincente, ma senza mai sottrarsi alla responsabilità di dirla tutta intera. Questo è lo stile di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI; uno stile peraltro sempre fedele a quello che egli aveva scelto come proprio motto episcopale: “Collaboratore della verità”.
Sappiamo bene a quale verità alludono queste parole della terza lettera di Giovanni e quanto questa verità ecceda le verità del mondo. Eppure sentiamo che si tratta di un’eccedenza benefica, incoraggiante, produttiva; un’eccedenza che, ben lungi dall’umiliare la ragione umana, la rende ancora più forte e più libera; un’eccedenza che, ben lungi dal costituire un intralcio per la democrazia, la mette al riparo dalla demagogia e da ogni possibile dittatura della maggioranza. Ci viene detto in sostanza che la regola aurea della nostra democrazia, ossia il principio di maggioranza, non rappresenta un surrogato della verità, un modo per arrangiarci alla meno peggio in un mondo in cui la verità non c’è più, bensì un metodo per rimanere il più fedeli possibile all’incommensurabile dignità di ogni uomo e alla sua libertà. Decidiamo le questioni a maggioranza, non perché la verità non esiste, ma perché, in una comunità di liberi e uguali, non è consentito a nessuno di imporre la verità o la giustizia contro la volontà dei diretti interessati. Al limite, come vado dicendo da diversi anni, in uno spirito che considero temerariamente “ratzingeriano”, è meglio un errore condiviso almeno dalla maggioranza che una verità imposta con la forza. Guai però a pensare che la verità non esista o che tutti i discorsi valgano alla stesso modo. In questo caso infatti non resterebbe altro che il potere: un potere dispotico e senza limiti.