È da poco in libreria, per i tipi della casa editrice White Star, il nuovo lavoro di Luciano e Simonetta Garibaldi “Adolf Hitler. Il tempo della svastica”. Tra un anno scadrà il settantesimo anniversario della fine del Terzo Reich (e della seconda guerra mondiale). Si prevede un’alluvione di libri, come sta accadendo quest’anno per il centenario della prima guerra mondiale. Luciano Garibaldi, giornalista e storico, collaboratore de ilsussidiario.net, ha anticipato i tempi.
Garibaldi, cosa l’ha spinta ad occuparsi di Hitler e del nazismo?
I movimenti neonazisti stanno moltiplicandosi un po’ in tutta Europa. È un fatto che troppo si parla di Hitler e del nazismo spesso senza conoscere che cosa sono stati, che cosa hanno fatto, quali idee hanno sostenuto. Ecco il perché di questo libro, al quale ho pensato per anni, anzi per decenni, come è normale accada per chi, come me, è nato negli Anni Trenta.
Un lavoro che si ricollega a Operazione Walkiria, non è così?
Sì. Nell’ormai lontano 1964, in occasione dei vent’anni dell’attentato al Führer del 20 luglio 1944, trascorsi un mese in Germania intervistando i superstiti del complotto e ricavandone una serie di servizi per vari quotidiani italiani, che saranno poi la base di Operazione Walkiria. Hitler deve morire del 2008. Feci poi il bis con O la Croce o la Svastica, ricostruzione della dura e determinata opposizione al nazismo da parte di Pio XII. E così sono arrivato a questa storia del Terzo Reich, realizzata assieme a mia figlia Simonetta, anch’ella appassionata ricercatrice storica.
Il libro è corredato di molte fotografie. Hanno solo un’importanza documentaria?
No, la scelta fatta dagli editor della White Star-De Agostini risponde a precisi criteri di ordine non soltanto documentario, ma anche psicologico. Si è voluto dare spazio alle immagini che aiutano a capire, anche dall’espressione del volto di molti personaggi (si osservi, in proposito, il sorriso di Goebbels accanto al suo idolo), che tipo di uomini (e di donne) fossero veramente i protagonisti del “tempo della svastica”.
Quale criterio avete seguito per la realizzazione del libro?
Rigorosamente cronologico e cronistico. Siamo due giornalisti, non due docenti universitari. Siamo partiti dalla famiglia di Hitler, dalla sua infanzia e dai suoi studi a Braunau e a Linz, dalle travagliate vicende della sua giovinezza di mancato artista a Vienna, per proseguire con la sua esperienza al Fronte durante la Grande guerra, con la scoperta della vocazione politica a Monaco, con la sublimazione della violenza come strumento di conquista del potere fino alla apocalittica fine nel Bunker di Berlino e al processo di Norimberga, proiezione moderna del Vae victis!.
Ci parli del giovane Hitler.
Una giovinezza cupa e tutt’altro che serena, quella di Hitler. Liti continue col padre, che ha progettato per lui un avvenire di doganiere, mentre il ragazzo sogna la pittura. Ha 13 anni quando papà Alois muore d’infarto. Lo mantiene la madre, che però muore per cancro al seno nel 1907, quando lui sta per compiere i 18 anni. Parte per Vienna, dove lo attendono cinque anni di stenti e difficoltà. Fa lo spalaneve, il facchino alla stazione, il muratore. Nel tempo libero si dedica alla pittura, la sua passione. Ma soprattutto legge, divora libri e giornali, si getta in accese discussioni politiche, cariche di odio per gli ebrei, per i marxisti e per gli Asburgo, colpevoli di consentire un «conglomerato di razze».
Finché lo scoppio della prima guerra mondiale trasforma la sua esistenza.
Esatto. Combatte con valore guadagnandosi due Ritterkreuz. Il 4 agosto 1918 costringe alla resa, da solo, sedici francesi. È promosso caporale, ma, ferito alle gambe e colpito agli occhi dai gas a Ypres, finisce in ospedale da dove sarà dimesso il 19 novembre 1918, carico di rabbia per l’armistizio che l’Austria ha sottoscritto otto giorni prima.
È forse quella rabbia che lo spingerà ad entrare in politica?
Sicuramente. È Monaco il vero luogo di nascita del nazismo. A Monaco Hitler sperimenta e perfeziona la violenza di piazza, s’imbarca nel mitico “Putsch della birreria”, finisce in galera dove scrive, anzi detta, il Mein Kampf, il suo vangelo, crea il partito nazionalsocialista con i suoi simboli: la svastica, rintracciata nel Tibet, il saluto romano, copiato dai fascisti. A Monaco perfeziona il suo stile oratorio. Tiene fino a quattro discorsi a sera, accompagnati dal fragore delle parate al suono delle marce militari. Sarà questa “cura” a portare il Partito nazista (l’Nsdap) da poco più del 2% del 1923, al quel 44% − pari a 17,3 milioni di voti – del 3 marzo 1933, che consentirà a Hitler, da pochi mesi nominato cancelliere, di ottenere dal Parlamento i pieni poteri.
Tra le imprese più sanguinarie dei primi giorni dei “pieni poteri” vi fu la decapitazione delle SA che pure avevano portato Hitler alla vittoria, e l’assassinio del loro comandante, Ernst Rӧhm, e del suo stato maggiore, tutti accusati di omosessualità.
La strage del 30 giugno 1934, passata alla storia come la “Langmessernacht”, la notte dei lunghi coltelli, fu davvero un evento spaventoso. Seguirono vere e proprie carneficine. Morirono più di mille personaggi: a tutti Hitler doveva il suo successo.
Come si può sintetizzare il “nuovo ordine” che trasformò la Germania?
Per sommi capi: tutti i libri di testo delle scuole furono riscritti da giornalisti di partito. Via i docenti ebrei dai licei e dalle università, nonostante ben dieci scienziati tedeschi ebrei avessero conseguito il Premio Nobel negli ultimi 20 anni. Il problema principale, la disoccupazione, venne affrontato con la creazione dell’Arbeitsfront e delle Corporazioni tra lavoratori e capitalisti «a parità di diritti». Importante era la piena occupazione: assegnare un lavoro a chi non lo aveva. Il risultato fu raggiunto in breve tempo.
Un esempio?
Negli Stati Uniti circolava un’auto ogni 5 abitanti, in Germania una ogni 50. Hitler lanciò uno slogan: «Un’auto per ogni lavoratore». E disegnò la Volkswagen, l’«auto del popolo», con l’impegno dell’ingegner Porsche a metterla in vendita a meno di mille marchi. Nel contempo, fu varato il piano per la costruzione di una gigantesca rete di autostrade a quattro corsie, piano che diede lavoro a sei milioni di giovani disoccupati.
A quel punto, Hitler realizza che può lanciare la sua “sfida al mondo”, come l’avete definita nel vostro libro.
La seconda guerra mondiale causò la morte di 7 milioni e 400 mila tedeschi (di cui 5 milioni e 300mila militari e 2 milioni e 100mila civili). Un tragico record “battuto” soltanto dall’Urss (con 23 milioni di vite umane) e seguìto a ruota dalla Polonia (con 5 milioni e 600mila morti). Non a caso le tre nazioni erano state le protagoniste della deflagrazione del conflitto. La sconfitta della Germania e dei suoi alleati fu determinata non soltanto dalla superiorità tecnica e numerica degli eserciti avversari, ma anche dagli errori strategici attribuibili alle scelte personali del Führer.
Il capitolo forse più intenso del lavoro è dedicato all’Olocausto.
Non poteva essere diversamente, anche perché pochi sanno che le radici dell’antisemitismo, in Germania, erano solide. Già nel 1879 Wilhelm Marr aveva costituito la Antisemiten Liga cui aveva fatto seguito, nel 1893, l’Antisemitischen Volkspartei. Agli anni 1912-13 risalivano le opere di Werner Sombart, e, al termine del primo conflitto mondiale, la Repubblica di Weimar era stata ribattezzata, dai Freikorps nazionalisti, la Juden Republik. Ebrei erano Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, capi del movimento marxista, assassinati il 15 gennaio ’19 a Berlino, come pure il ministro degli Esteri di Weimar, Walter Rathenau, che morirà assassinato nel ’22. Quanto a Hitler, già nel Mein Kampf sognava di sopprimere «con i gas asfissianti» migliaia di ebrei «corruttori del popolo».
Come avete raccontato, nel vostro libro, la fine di Hitler e del nazismo?
Vi abbiamo dedicato il capitolo “Apocalisse a Berlino”. Hitler, rinchiuso nel bunker sotto la Potsdamerplatz, era tormentato dall’insonnia e dal morbo di Parkinson. Ma soprattutto dai cedimenti dei suoi più stretti collaboratori. Il 28 aprile, appresa la notizia che il capo delle Waffen SS Himmler aveva proposto agli angloamericani la resa incondizionata, ordinò che il suo braccio destro nel Bunker, Hermann Fegelein, che pure era il cognato di Eva Braun, e che probabilmente non sapeva nulla dell’iniziativa del suo capo, venisse fucilato. Quando i russi avevano ormai circondato la Potsdamer Platz, convocò la segretaria Traudl Junge e iniziò a dettarle il testamento nominando l’ammiraglio Dӧnitz suo successore.
Nella notte sul 29 aprile, un funzionario del Municipio di Berlino dichiarò Hitler e Eva Braun marito e moglie. Poi, il 30 aprile, alle ore 15 i due si suicidarono: Eva inghiottì una capsula, Adolf fece altrettanto, ma, in contemporanea, si sparò un colpo di pistola alla tempia. Seguirono i suicidi di Gӧbbels e di sua moglie Magda Quandt, che prima avevano soppresso i loro sei bambini i cui nomi iniziavano con la H in onore di Hitler: Helga, Hilde, Helmut, Halde, Hedda, Haide.
E del processo di Norimberga avete parlato?
Vi abbiamo dedicato l’ultimo capitolo. Il processo si prolungò in ben 408 udienze e non ebbe precedenti, non potendo rifarsi ad alcuna norma del diritto internazionale. Per questa ragione, le nazioni che avevano vinto la guerra compilarono un capo d’accusa che prese il nome di “Nazi conspiracy and aggression”. Il momento clou del lungo processo fu la proiezione in aula di alcuni filmati che documentavano lo sterminio di donne e bambini effettuato ad Auschwitz…
Ovviamente negato dai nazisti.
Alla vista di quelle scene Gӧring non si trattenne e urlò: “È un falso!”. Ma venne zittito. Due settimane dopo, il 15 ottobre, alla vigilia dell’esecuzione capitale che lo attendeva, Gӧring si suicidò in cella inghiottendo una fiala di cianuro. Il giorno seguente, 16 ottobre, tutti i gerarchi furono impiccati. Trasportati nel Lager di Dachau, i cadaveri furono gettati nel forno crematorio e trasformati in un mucchio di ceneri, poi caricate su due bidoni della spazzatura e disperse nell’Isar, il fiume che bagna Monaco.
Può dirci qualcosa del rapporto tra regime nazista e Chiesa cattolica?
L’ostilità del nazismo nei confronti della Chiesa, e in particolare di papa Pio XII, è chiaramente ed inequivocabilmente dimostrata dalla durissima repressione che colpì i non pochi sacerdoti coinvolti nella congiura del 20 luglio 1944 (l’Operazione Walkiria). Hitler era perfettamente informato delle iniziative intraprese da numerose sedi religiose per porre in salvo gli ebrei perseguitati, specialmente dopo l’occupazione di Roma seguita all’8 settembre ’43, al punto che ordinò al generale Karl Wolff, comandante delle Waffen SS in Italia, di arrestare Papa Pacelli e trasportarlo prigioniero nel Liechtenstein. Fu soltanto l’abilità e l’intelligenza di Wolff a rinviare l’esecuzione dell’ordine fino a renderlo inattuabile. Manovra che garantì a Wolff l’impunità nel dopoguerra.
Qual è la sua lettura della famosa formula di Hannah Arendt della “banalità del male”?
La Arendt, che seguì il processo ad Adolf Eichmann, conclusosi con la sua impiccagione a Gerusalemme il 31 maggio 1962, sostenne, nel suo famoso libro-reportage, che le azioni compiute dal gerarca nazista contro gli ebrei non erano dovute alla sua indole malvagia, ma al fatto che non si rendeva conto delle conseguenze che esse avrebbero avuto. In altre parole, Eichmann era un uomo mediocre, inerte e privo di cultura, che prestò un’obbedienza totale ed inconsapevole ad un sistema gerarchico inattaccabile. La stessa tesi di Margareth Von Trotta. Non sono d’accordo. Chi si assunse l’onere di dirigere la spaventosa macchina di morte antisemita era perfettamente consapevole che avrebbe fatto soffrire pene inenarrabili a milioni di persone assolutamente innocenti.
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Luciano e Simonetta Garibaldi, “Adolf Hitler. Il tempo della svastica”, White Star-De Agostini, 2014, 287 pp., 19,90 euro