Uno dei libri poetici più alti della letteratura italiana, ed europea, che abbiano testimoniato lo strazio e il naufragio di un’intera civiltà, consumatisi nel calvario della prima guerra mondiale, è Il Porto Sepolto di Giuseppe Ungaretti. Il volumetto viene pubblicato in 80 copie nel 1916, a Udine, e contiene 32 poesie. L’autore, soldato semplice in servizio presso il 19° reggimento di fanteria, si trovava allora sul Carso; ed è alla durissima vita di trincea che fanno riferimento, a volte in modo esplicito, a volte allusivamente, tutti i testi, se si eccettuano il primo, In memoria dell’amico suicida Moammed Sceab (che funge da dedica della silloge), il secondo e l’ultimo, Il Porto Sepolto e Commiato, in cui si riflette sulla natura della parola poetica.
Non sarebbe vano verificare subito come i tre piani – la guerra, la memoria, la poesia – stiano in rapporto fra loro, dal momento che il nodo costituisce uno dei dati fondamentali dell’esperienza ungarettiana. Da questo punto di vista il titolo del libro è illuminante, attraverso l’esplicazione che ne fornisce la poesia eponima: in un’ora massimamente tragica la poesia è occasione e spazio d’inabissamento introspettivo, per fare luce dentro di sé e interrogare le proprie radici, i propri fondamenti, psicologici e culturali. Quel che ne risulta è un barbaglio di dimenticati segreti, che certifica l’appartenenza dell’uomo a un mistero che lo trascende: il “nulla” inesauribile, memore del “nulla eterno” di Foscolo, a cui corrisponde per Ungaretti, misticamente, la meta insondabile e vertiginosa del nostro destino.
L’immagine è sviluppata in Pellegrinaggio, dove la vita umana è rappresentata nei termini di un viaggio sacro che si compie tramite l’accettazione della propria via crucis: una sorta di itinerario di espiazione lungo il quale Ungaretti, già euforico interventista, è ridotto a una “carcassa / usata dal fango come una suola”. La violenza espressionistica emerge anche in altri celebri brani di questo diario in versi, che racconta l’atrocità della guerra: si vedano il “compagno / massacrato” di Veglia, “la notte violentata” e “l’aria crivellata” di In dormiveglia, l'”albero mutilato” di I fiumi, le case ridotte a “qualche / brandello di muro” di San Martino del Carso.
Di simile strazio, che sembra ridurre tutto in polvere (le cose e gli uomini, i sentimenti e le speranze), il poeta si fa carico, quale testimone e quale interprete: è il valore religioso della memoria, come – foscolianamente – “corrispondenza d’amorosi sensi”. Segnato dal lutto, Ungaretti scrive: “Ma nel cuore / nessuna croce manca”. Annunciando così la propria vocazione a custode del dolore del mondo, al fine di preservare – tramite la scrittura poetica – quanto la guerra ha mandato in frantumi.
La trincea restituisce a Ungaretti, in primo luogo, la percezione originaria dell’umana “fragilità”: l’individuo si scopre niente più che una “parola tremante / nella notte” (Fratelli). Non solo. Essa produce una regressione e una metamorfosi che – spogliando l’uom di ogni moto spirituale e affettivo – lo rende letteralmente insensibile: “Come questa pietra /[…]/ così totalmente / disanimata” (Sono una creatura). Ma è su tale orizzonte, comune a larga parte della letteratura dell’epoca, che spicca il tratto più originale e sorprendente della vicenda di Ungaretti. La si colga, qui, nelle sue tre cellule scolasticamente più riconoscibili.
1. L’obiezione alla morte in nome di un attaccamento alla vita, di una tensione esistenziale estrema, introdotta per es. nel finale di Veglia (“Non si tratta di filosofia – chioserà Ungaretti –, si tratta d’esperienza concreta”).
2. La perdurante e intatta fiducia nella parola poetica, che, si legge in Commiato, viene silenziosamente estratta dagli abissi del cuore, e possiede la forza di far fiorire “il mondo” illuminandone la meravigliosa fertilità.
3. La scoperta dell’incancellabile contraddizione tra la condanna dell’uomo alla mortalità e l’enigmatico interrogativo di Dannazione – che Ungaretti non può tacere, poiché lievita dalla propria brama d’infinito e non sa trovare risposta: “Perché bramo Dio?” (Allo stesso modo in Risvegli, “Ma Dio cos’è?”).
“Domandarsi perché si brama Dio – ha osservato Pasolini – è indubbiamente diverso che affermare che lo si brama”; e tipico della religiosità del primo Ungaretti, ovvero la sua consolazione specifica, è dunque la capacità di trasformare il “travaglio”, oltre che in lamento, in ascesi e rigenerazione (si veda Destino). Questa è l’Allegria di cui Ungaretti è eccezionale titolare nella letteratura europea crocifissa dalla guerra: “il perenne ricominciare e riprendersi, dopo ogni naufragio della propria storia” (G. Contini).