«Nell’epoca della globalizzazione quali pericoli possono essere realmente piccoli?», si chiedeva nel 2009 l’ex dissidente Vaclav Havel (in un intervento riproposto qualche giorno fa da Repubblica e definito “inedito”, in realtà presente ne Il potere dei senza potere e altri scritti, Itaca, 2013), non per alimentare la generica paura che attanaglia l’uomo postmoderno, ma per ribadire una verità per lui certa, e cioè che la combinazione tra la crescita dei mezzi distruttivi e il decrescere dell’autocoscienza umana rende malsicura qualsiasi pace, qualsiasi stabilità puramente «orizzontale», mentre una potente coscienza della propria dignità, della propria libertà e della propria responsabilità rendono possibile la vittoria della pace autentica, quella che Havel chiamava “la vita nella verità”.



È ciò che stiamo vedendo oggi in Europa. Dopo la fine delle guerre nei Balcani, nel nostro continente sembrava tornata una solida bonaccia, e l’Unione Europea poteva occuparsi di questioni economiche, di quote rosa, di ecologia senza più bisogno di scomodare alti ideali di libertà. Era l’ordinaria amministrazione di un grande ideale ormai arcaico, quasi «la fine della storia». E d’improvviso arrival’Ucraina: ci eravamo dimenticati che gli alti ideali, magari anche solo gli ideali della democrazia europea possono essere ancora attuali e che oggi per essi si può ancora morire.



Cosa rendeva così acuta l’osservazione di Havel, allora, e cosa la rende incredibilmente attuale, oggi? Semplicemente la sua esperienza di dissidente, cioè l’esperienza di un cittadino senza potere, né strumenti, né influenza, l’esperienzadell’uomo singolo che cominciando dal cambiamento di sé aveva prodotto il famoso frullo d’ali di una farfalla che genera un potente uragano, in questo caso storico. E non si tratta di edificanti mitologie: il fatto che le azioni di singoli uomini possono cambiare il mondo è testimoniato da una concreta esperienza storica; non uno slancio emotivo e nemmeno una costruzione intellettuale, ma un’esperienza concreta. Anche allora, come avviene oggi con l’Ucraina, c’era chi accreditava una concezione del mondo e della storia molto diversa, nella quale la libertà e la responsabilità del singolo scompaiono, assorbite, ridicolizzate dalla «grande politica», dalla questione energetica, dalla potenza delle grandi formazioni statali o dalle trame di quelli che allora si chiamavano «blocchi». Cosa poteva fare il singolo? Niente, si credeva: l’unica cosa che poteva fare era adeguarsi a questa logica, funzionare come un tasto di pianoforte sotto gli impulsi dei signori della musica. Ecosa è successo allora perché il potere dei senza potere sconvolgesse questa logica? 



È una domanda che torna molto attuale oggi, più inquietante ancora perché la globalizzazione intanto è avanzata, e rende sempre più reale ciò che osservava Havel: «che un qualche più serio conflitto regionale si possa trasformare in un conflitto di portata mondiale». Ma la nostra cecità, la cinica incredulità di fronte al ruolo dell’uomo nella storia, rimangono esattamente quelle di allora; una cecità tipicamente ideologica che Havel definisce come «superbia» e «arrogante convinzione di sapere tutto». 

L’arrogante convinzione, però, ha un corollario tremendo e suicida, lo stesso corollario che aveva allora: chi crede di aver compreso la storia si sente spesso autorizzato, se le cose non vanno come devono, a intervenire «magari anche con la violenza», come osserva Havel ricordando il comunismo e il Gulag. 

La situazione internazionale è cambiata, il comunismo e il Gulag, almeno in Europa, non esistono più, ma la convinzione dei potenti di poter guidare la storia a dispetto della libertà e della dignità delle singole persone sono rimaste le stesse: il Majdan resta incomprensibile e pericoloso sia per chi cerca di trasformarlo in una parte della sua politica, sia per chi ha paura che possa compromettere la sua politica, sia per chi non riesce a concepire la persona se non come un individuo isolato senza nessuna consistenza se non quella delle sue idee, dei suoi sentimenti e dell’arbitrio delle sue voglie, sia per chi non riesce a concepire la persona se non come una rotellina che deve seguire meccanicamente le leggi del meccanismo di cui è parte. Il Majdan resta incomprensibile e pericoloso ad Occidente come a Oriente, sia là dove l’unica grandezza è quella del nulla, sia là dove l’unica grandezza rischia di essere quella di un impero che restaura un passato inquietante.

Il Majdan, invece, almeno in quelli che non si piegano a questa comune logica a due facce, è stato, esattamente come nel caso di Havel, la scoperta e il venire alla luce del desiderio dell’uomo di essere definito da qualcosa di più grande dei sentimenti immediati (oggi l’arbitrio, allora la paura), la coscienza che l’uomo non è definito dalla propria piccolezza, dalla propria miseria e dalla propria povertà, ma dal respiro infinito del suo cuore, quello che qualche giorno fa una pensatrice russa descriveva in questo modo: «Credo che il cuore sia vivo solo quando sussulta per lo stupore, la gioia o il dolore. Quando invece si pietrifica nella paura, quando vacilla sotto il senso di offesa, di sfiducia, e si ripiega su di sé, allora cessa di essere vivo, diventa una pietra, un fardello, una gabbia a se stesso. Le porte dell’inferno sono chiuse dall’interno. Ma basta vedere come si fa largo in mezzo all’asfalto un narciso “non previsto” in quel luogo, o ancora qualcosa che essendo “intempestivo” lì dov’è, ci annuncia quello che sta oltre, che subito il cuore riprende vita. Esce da sé, scioglie il bozzolo, svelle le sbarre, ricorda con gioia che non ha pari perché è erede del Regno, e che il compito della vita è stare attento a non concentrarsi su se stesso, lasciandosi sfuggire anche un solo segno che ci ricordi, pur con tutte le nostre stranezze, che siamo figli di un re».