Un altro pontefice sale agli altari: sarà Paolo VI, che Papa Francesco farà beato il prossimo 19 ottobre. Se le critiche alla canonizzazione di Giovanni Paolo II sono venute quasi solo dall’esterno della chiesa, questa volta non sarà così. Paolo VI – troppo conservatore per i progressisti, troppo progressista per i conservatori – è figura irriducibile a qualsiasi schema. Per dirla con Nanni Moretti, se ha fatto tante cose di sinistra altrettante ne ha fatte di destra. Esempi di cose di sinistra: rinunciò all’uso della tiara, promosse fortemenete l’ecumenismo, baciò per terra inginocchiandosi nel fango quando l’auto che lo portava a Milano varcò il confine della diocesi (gesto che ripetè in ogni viaggio e che fu ripreso da Giovanni Paolo II), portò a termine il Concilio, istituì la giornata mondiale della pace, eliminò l’Indice dei libri proibiti, istituì il Sinodo dei vescovi, ebbe grande attenzione al sociale (basti pensare all’ enciclica Populorum Progressio). Esempi di cose di destra: sottrasse al concilio il dibattito su celibato sacerdotale, contraccezione e controllo delle nascite pubblicando poi due encicliche molto contestate: l’Humanae vitae e la Sacerdotalis Caelibatus; aggiunse alla Lumen Gentium la Nota esplicativa previa, necessaria per evitare interpretazioni in senso episcopalista; nominò d’autorità, nell’Olanda in piena crisi dottrinale, due vescovi scelti da lui. E, ovviamente, l’elenco potrebbe continuare a lungo, includendo, per esempio, i viaggi che, primo Papa, toccarono i cinque continenti.
Però queste riduzioni schematiche, se hanno il pregio della chiarezza, hanno il difetto della menzogna. Nessuno più del futuro beato rifugge dalle semplificazioni e forse il disagio da parte di alcuni buoni credenti nasce proprio da questo. Viene in mio soccorso un fatterello accaduto il pomeriggio dei 4 papi – il 27 aprile 2014. Mi colpì una delle tante interviste televisive fatte in Piazza San Pietro a chi passava. Era a un signore che non era tanto contento. Cos’era questa storia di aver unito in un’unica canonizzazione due papi ridimensionando, in pratica, Giovanni Paolo II “il grande”? ma perché grande? “Bisogna capire il momento storico, in quel momento la chiesa era come se fosse assediata. Il povero Paolo VI su cui si erano riversate tutte le contraddizioni del momento, era morto chiedendo pietà alle Brigate Rosse per Moro, era un momento veramente drammatico, e allora la chiesa – che erano gli assediati – ha un nuovo capo, il capo degli assediati, che dice agli assedianti ‘non abbiate paura’: Giovanni Paolo II, ha conquistato il mondo a Cristo, ha lasciato una chiesa completamente diversa da come era prima”.
Ascoltavo trasecolato. Ovviamente Paolo VI non chiese nessuna pietà alle Br – chiese di liberare Aldo Moro – eppure per l’intervistato il tono sofferente di un Papa umile, era diventato chiedere pietà.
Non credevo alle mie orecchie ma youtube mi consentiva di sentire e risentire quelle parole che dicevano qualcosa di più di quello che dicevano. Il qualcosa che mancava ero lo schema della guerra (una guerra di pace, per Cristo, ovviamente) e quell’assenza metteva a disagio l’uomo della strada. Gli sceneggiatori lo insegnano: una storia funziona quando più precisi sono i protagonisti e gli antagonisti, il bene e il male, chi sogna e chi vuole distruggere il sogno, gli ostacoli e il movente. Con Paolo VI tutto questo saltava in aria. Perché Paolo VI non voleva attacare e non si voleva difendere, aborriva pensare che ci fossero assediati e assedianti. Quando inventò la giornata mondiale della pace disse, contro venti secoli di storia, “se vuoi la pace, prepara la pace”.
Moriva la storia pagana e nasceva quella cristiana. Paolo VI, uomo del dialogo, sapeva bene che c’erano un protagonista e un’antagonista: ma sono Dio e il diavolo, non gli uomini tra loro. Era uno che in India aveva detto “noi desideriamo operare per il bene del mondo, per il suo interesse, per la sua salvezza, e se il mondo si sente estraneo al cristianesimo, il cristianesimo non si sente estraneo al mondo qualunque sia l’aspetto che esso presenta e il contegno che esso gli ricambia”. Oppure a Hong Kong “la missione della chiesa è amare. La chiesa non può tacere queste buone parole: amore per sempre”.
Quello che forse trascura chi preferisce il ragionamento semplice, è che dietro quell’apparente debolezza c’era un’immensa forza: quella di Cristo, della dignità di un uomo che ha rispetto per le proprie convinzioni e che quindi sa capire le ragioni altrui, sa accettare la divergenza. Paolo VI voleva creare le condizioni perché il dialogo potesse alimentarsi non solo della simpatia ma anche della diversità d’opinione.
C’è un avvenimento, piccolo se vogliamo, che mi sembra un cameo della forza di quest’uomo. Quando si apriranno gli archivi vaticani se ne potrà avere conferma, ma il fatto è questo. Dal 1937 al 1954 Montini fu, forse, il principale collaboratore di Pio XII ma alla morte di Schuster, Pacelli mandò Montini a Milano e non lo fece cardinale. Montini rimase per quattro anni arcivescovo di Milano senza essere cardinale. Pio XII non voleva che, alla sua morte, quello che era stato il suo principale collaboratore entrasse in conclave. Il motivo? Sembra, dicono alcuni storici, che Montini si fosse schierato con De Gasperi quando aveva chiesto a Pio XII una maggior autonomia per la Dc, distanza che il pontefice gli negò. Montini fu ricompensato con il più classico dei promoveatur ut amoveatur. Ma Giovanni XXIII, appena poté, lo fece cardinale come primo della lista, e Montini divenne Papa e santo. In un recente tweet Barbara Carfagna ha scritto che “il vero maschio alfa è il maschio beta”. Forse chi borbotta per Paolo VI dovrebbe imparare da una giornalista.