Su popefrancisholyland2014.lpj.org, il sito ufficiale dell’Assemblea degli ordinari cattolici di Terra Santa, pubblicato in occasione della visita di papa Francesco del 24-26 maggio, campeggiano la foto del patriarca Athenagoras e di papa Paolo VI scattata il 6 gennaio 1964 a Gerusalemme e, subito di seguito, quella del patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I con papa Francesco nel 2013 a Roma. In mezzo non sono raffigurati gli incontri ecumenici di altri pontefici, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI (che pure in favore del dialogo religioso – nelle reciproche differenze concettuali e di stile – molto hanno detto e fatto). Si vuole pertanto collegare l’imminente viaggio di Bergoglio direttamente a quella prima storica visita fatta dal papa storiograficamente più discusso del post-concilio e meno luccicante nei media cattolici – ma non nella pietà popolare (si veda l’ampia e documentata biografia recentemente dedicatagli da Andrea Tornielli, con qualche ausilio di fonti e letture da parte di chi scrive).
È certo questo un anniversario “tondo”, cinquant’anni, è pertanto merita di per sé il collegamento diretto tra la prima e l’ultima visita tra il primate occidentale e quello orientale del cristianesimo, una chiave di lettura esplicitamente riconosciuta da Papa Francesco quando ha affermato che il principale motivo del primo viaggio da lui stesso scelto nella terra della Rivelazione (la Gmg era già stata decisa dal predecessore) sarà: “commemorare lo storico incontro tra il Papa Paolo VI e il Patriarca Athenagoras”.
Il gesto di Montini, l’abbraccio portato materialmente e spiritualmente ad Athenagoras (il leader più in vista nella Chiesa greca ortodossa) e il patriarca greco ortodosso di Gerusalemme Benedictos, segnò allora il primo passo di dialogo fra le due ali della Chiesa, quella cattolica e quella ortodossa, separate profondamente dal più antico e perdurante scisma cristiano, prodottosi nel 1054. Il viaggio del papa bresciano dice anche di più: ne fa il primo pontefice moderno ad aver mai visitato una nazione straniera, sebbene sull’onda emotiva di un’attenzione nuova generata dal predecessore Roncalli, già grande diplomatico proprio in orizzonti orientali. A parte le – pure epocali – uscite fuori porta di quest’ultimo nelle borgate e nelle carceri, Paolo VI ruppe così un isolamento propriamente fisico oltreché simbolico che originava dalla questione romana.
Il viaggio di Montini ha poi una sua spiegazione eminentemente dottrinale, essendosi realizzato temporalmente nel pieno della celebrazione del Concilio: esso si collocò anzi pienamente nel clima di riallaccio di rapporti con l’ebraismo e l’islam, di rinnovato interesse per la Sacra Scrittura e di nuove politiche ecclesiali prodotte dalla riforma liturgica, tutte questioni al centro del confronto nell’Assise Vaticana.
Ma nello storico incontro tra Roma e Gerusalemme vi fu qualcosa di più, di ancor maggiormente profondo sotto il profilo della bimillenaria esistenza del cristianesimo, e Paolo VI lo disse chiaramente, spiegando che il suo recarsi in Terra Santa si doveva leggere come il “ritorno” del successore di Pietro alle origini della Salvezza, “un colpo d’aratro” nella storia della Chiesa. Si trattò propriamente di un pellegrinaggio, la cui antica tradizione si sposava qui con una visione straordinariamente moderna del ruolo di pontefice, anteponendo il credente al munus ed all‘imperium, ma a un tempo il politico, che dalla sua posizione privilegiata di osservatore spirituale dei conflitti del mondo, agiva concretamente per lo sviluppo e la pace. Per questo, il papa incontrò in Terra Santa le autorità civili sia in Giordania che in Israele, oltre a pregare nei luoghi sacri del Vangelo. E proprio Papa Montini pochi anni dopo avrebbe dato inizio con il primo gennaio 1968 alle giornate mondiali della pace.
Ecco, dialogo e pace sembrano anche due dei pilastri fondamentali su cui Francesco sta costruendo la sua azione pastorale, procedendo da una netta e determinata visione di Chiesa rievangelizzante, e queste coordinate lo rendono insospettabilmente più vicino, in parte anche psicologicamente, a quel predecessore così trascurato nella storiografia precedente, e di cui oggi il Vaticano si sta giustamente riaccorgendo, come prova la recente accelerazione nella sua promozione agli altari.
Come ha scritto di recente il vaticanista Franco Pisano, grande conoscitore e testimone diretto delle visite papali in Israele, la Terra Santa che Francesco sta per incontrare è una realtà geopolitica e religiosa profondamente diversa rispetto a quella degli anni Sessanta, con la componente cristiana in forte compressione, ed un islam sempre più caratterizzato come un elemento di cultura araba. Papa Bergoglio si confronterà, come il suo predecessore, con i principali attori civili proprio seguendo il paradigma montiniano della pace; e rispetto a questa realtà complessa e drammaticamente tesa in un conflitto etnico-politico-religioso, Francesco guiderà il suo nuovo abbraccio al patriarca ecumenico di Costantinopoli partendo da quella sua missione di unità della Chiesa che, come ha rilevato mons. Luigi Negri all’atto dell’elezione del Pontefice argentino, appare come una cifra programmatica del suo ministero, attestata puntualmente dalla sua citazione iniziale delle parole di Sant’Ingnazio di Antiochia, per il quale il vescovato di Roma «presiede alla carità, che ha la legge di Cristo e porta il nome del Padre».