Due Franciscos, uno argentino, vivente, e uno spagnolo, pittore del ‘600; uno è il papa, l’altro l’ascetico e perturbante Zurbarán, accostato a Caravaggio, che dipinge un San Francesco vibrante di contrasti, dei chiaroscuri propri della spiritualità di Sant’Ignazio. Un mantello disincarnato, il volto coperto e chino su un cranio accolto tra le mani. Non ancor morto, però, anche se la luce soffusa è ben poco terrena, lo taglia da ogni dove, lo circonfonde, perché sta avanzando, lentamente, ma con decisione. 



Un quadro che da solo racconta e spiega meglio di un trattato il seicento del mondo e della cristianità, i suoi drammi, i suoi sbandamenti, le ritrovate certezze. Altro legame non solo nominale col primo Francesco citato, il pontefice, che sibi nomen posuit Franciscus, ma che è nato come figlio del Loyola e dei suoi Esercizi. Soldato dunque, seppur senza armi, senza divisa, ma spogliato solo del suo onore esteriore, pronto all’intervento, sempre, ma nell'”ospedale da campo” della Chiesa.



Mettere insieme due santi apparentemente diversissimi, e diversamente raccontati, questa la prima sfida di Alessandro Zaccuri, giornalista e scrittore, in un delizioso libretto de poche pubblicato da Il melangolo, che cerca i trait d’union del miles Christus e del poverello, congiungendoli nella figura dell’uomo “venuto dall’altra parte del mondo”. Facile vedere nel papa l’ispirazione al “Sol d’Oriente”, ma Ignazio è un santo meno apprezzato dalla modernità: Spagna, Controriforma, Gesuiti, siam già in un romanzo noir di Umberto Eco o Dan Brown. Si tende volentieri a dimenticare, nel consenso superficiale al pontefice, questa sua figliolanza, ricordata  e ribadita con umile orgoglio. 



Doppia sfida, allora, scoprire e unire le radici del papa, in 52 paginette pulite, densissime di riferimenti all’arte, alla letteratura alla teologia, che cercano nell’Evangelii gaudium, il primo testo e manifesto programmatico di Bergoglio, le tracce degli Esercizi ignaziani: il campo militare di Cristo, l’elogio della povertà, “saldatura forse più importante tra Francesco e Ignazio”, la coscienza del teschio, nel quale il santo incappucciato di Zurbarán si specchia; quel pulvis eris così importante nella spiritualità ignaziana, che non lascia amare di meno il mondo né frena il cammino, la ripartenza, decisa e continua, in Suo nome. 

Per questo il Francesco del dipinto muove il piede in avanti, è proteso, cammina. Il memento mori non chiude nell’angoscia o nella meditazione solitaria ma chiama all’azione fuori della Chiesa-cittadella, nelle “periferie esistenziali” dove ci si può ferire, sporcare. “Ferirsi significa salvarsi”, è la chiusa illuminante di Zaccuri, la massima da appoggiare sul comodino per rimeditarla ogni sera. Insieme alla riproduzione del San Francesco dello Zurbarán: perché si trova al Milwaukee Art Museum, un po’ troppo lontano, anche se pare bellissimo, disegnato con aerea eleganza da Calatrava. Nella patria di Fonzie, pensate un po’, che perla rara.


Alessandro Zaccuri, “Francesco. Il cristianesimo semplice di papa Bergoglio”, il melangolo, 2014