Franco Branciaroli mette in scena nel suo Enrico IV, ora a Brescia al Teatro Sociale, la più feroce e definitiva burla di Pirandello. E le conferisce la forza della verità che solo il teatro, quando ritrova la sacralità da cui è nato, sa ancora incarnare.
Tutta la finzione del primo atto, nella sua stucchevole recitazione, nei modi forzati dei personaggi che risultano inverosimili quando recitano “la realtà”, è funzionale, nella messa in scena, ad attribuire alla pazzia di Enrico IV/Branciaroli l’aura riconoscibile e inconfutabile della verità.
Quando entra in scena il pazzo ha un’espressione finalmente vera. Un’autorevolezza nel parlare, una sicurezza non nevrotica nell’incedere, una posatezza che certifica, per contrasto, la totale finzione della realtà quotidiana nella quale tutti viviamo.
Nel dramma pirandelliano Enrico IV è un nobile di inizio 900 (cioè contemporaneo) che partecipa all’ennesimo ed annoiato gioco di società, una cavalcata in maschera rievocante i personaggi storici di quel doppio gioco che fu il pentimento di Enrico IV a Canossa di fronte a Gregorio VII. Il personaggio di Enrico IV però, di cui sapientemente non si svelerà mai il nome anagrafico, viene disarcionato da cavallo dal suo rivale in amore, il barone Tito Belcredi, proprio davanti agli occhi della sua amata Matilde Spina, battendo la nuca e rimanendo per questo incatenato alla convinzione di essere davvero il personaggio di cui vestiva la maschera. Per vent’anni la pietà dei parenti lo custodisce nella sua pazzia creandogli attorno un mondo finto, su misura, con figuranti pagati alla bisogna. Finché l’amata Matilde, con Belcredi divenuto nel frattempo suo marito e la figlia Frida, decidono di recarsi a trovarlo con un medico, al fine di compiere un estremo tentativo di diagnosi e terapia. E qui si scatena il dramma pirandelliano che trascina lo spettatore nella distruzione progressiva e continua delle convinzioni e convenzioni sulle quali si regge la quotidianità, quella che si vive fuori dal teatro. Al termine del dramma Enrico IV, che nel frattempo svelerà a tutti di essere guarito, con un colpo di scena decide consapevolmente di rinunciare al tempo presente uccidendo, in una colluttazione provocata ad arte, il suo rivale, e condannandosi così a vivere nel suo mondo di cartapesta che considera più vero.
L’Enrico IV è il dramma in cui Pirandello esprime alla perfezione la sua convinzione per la quale il teatro è lo specchio più reale della vita. Solo a teatro si può avere un momento di verità, mentre fuori si cerca di star nelle parti assegnate, non importa che la recita vada a finir male…
“Tutta la vita è schiacciata così dal peso delle parole! Il peso dei morti. Eccomi qua: potete credere sul serio che Enrico IV sia ancora vivo? Eppure, ecco, parlo e comando a voi vivi. Vi voglio così! Vi sembra una burla anche questa, che seguitano a farla i morti la vita? Sì, qua è una burla: ma uscite di qua, nel mondo vivo. Spunta il giorno. Il tempo è davanti a voi. Un’alba. Questo giorno che ci sta davanti − voi dite − lo faremo noi! Sì? Voi? […] Mettetevi a parlare! Ripetete tutte le parole che si sono sempre dette! Credete di vivere? Rimasticate la vita dei morti!”
Se la vita è una infinita finzione in cui gli uomini e le donne recitano forzatamente una parte – consapevoli o inconsapevoli che siano – allora in teatro, come in una lucida follia accettata come regola, ci si può trattare in maniera autentica. Nella finzione finalmente un momento di sincerità del vivere e del guardarsi.
È qui dove Pirandello, affermando l’inconsistenza della realtà e della verità ne reclama tutta la nostalgia.
“Dico che siete sciocchi! Dovevate sapervelo fare per voi stessi, l’inganno; non per rappresentarlo davanti a me, davanti a chi viene qua in visita di tanto in tanto; ma così, per come siete naturalmente, tutti i giorni, davanti a nessuno, per te, capisci, che in questa tua finzione ci potevi mangiare, dormire, e grattarti anche una spalla, se ti sentivi un prurito: sentendovi vivi, vivi veramente nella storia del mille e cento, qua alla Corte del vostro Imperatore Enrico IV! E pensare, da qui, da questo nostro tempo remoto, così colorito e sepolcrale, pensare che a una distanza di otto secoli in giù, in giù, gli uomini del mille e novecento si abbaruffano intanto, s’arrabattano in un’ansia senza requie di sapere come si determineranno i loro casi, di vedere come si stabiliranno i fatti che li tengono in tanta ambascia e in tanta agitazione. Mentre voi, invece, già nella storia!”
Nello spettacolo visto a Brescia, il secondo atto, cuore del dramma pirandelliano, spazzando via d’un colpo tutte la cartellonistica pubblicitaria da cui era composta la scenografia e stagliandosi su uno spoglio fondale azzurro-notte, ha la potenza di questo miracolo del teatro, nel quale si svela la verità delle cose. Le convenzioni dell’arte stracciano di colpo le convenzioni della vita e reclamano la necessità di andare oltre le apparenze.
Se nulla fosse vero, infatti, non ci sarebbe lo struggimento che pervade tutta la pièce, per un attimo di verità, proclamata e vissuta senza maschere né infingimenti.
Dice Matilde quando ancora tutti credono che Enrico IV sia pazzo presentendone, invece, l’autenticità: “Me l’hanno detto i suoi occhi, Dottore: sapete quando si guarda in un modo che… che nessun dubbio è più possibile!”
Tutta la negazione del testo sta in piedi per l’affermazione viscerale che nessuno può alla fin fine strapparsi di dosso la speranza che la realtà abbia un senso non immaginato, ma vero e reale.
Da vedere.