L’ultima fatica da traduttore di Luca Canali, scomparso domenica scorsa, è la Storia della distruzione di Troia di Darete Frigio (Castelvecchi editore, 2014, con note di Nicoletta Canzio): un testo raro, peregrino, ma fondamentale, cui Luca Canali teneva giustamente molto; con questa traduzione, idealmente, si chiude un cerchio perché, un trentennio dopo la celebre e giustamente lodatissima Eneide, e dopo essersi cimentato con altri giganti quali Lucrezio, Lucano, Petronio, Orazio lirico, e poi, ancora, con Persio, Seneca, Massimiano, gli Epigrammata Bobiensia, Catone, le Res Gestae di Augusto, Canali è ritornato, in ultimo, dove tutto era iniziato: al racconto del mito troiano. 



E di questa versione, pur ricostruendo nell’Introduzione il quadro del contesto filologico e delle questioni relative alla tradizione e all’attribuzione del testo, rimaste sub iudice, immediatamente dopo la traduzione si rivela, come deve essere, per il punto apicale del volume: rigorosa e insieme piacevole, densa e souple, e insieme godibile, tale da scivolare sotto gli occhi del lettore; restituendogli, come anche giustamente M. Bettini annotava domenica sera, la consapevolezza che i testi classici non sono un repertorio sterile di marmo di Carrara, intangibili e lontani nella loro monumentalità fredda, utili solo per ardite speculazioni filologico-testuali o per ricavarne quante più informazioni con cui ricostruire il quadro storico e di civiltà. Piuttosto, l’eredità più bella, più ricca, più fertile dei lunghi anni di insegnamento e scrittura di Luca Canali è questa: che il mondo classico è vivo, ci parla, ci insegna, che Orazio e Lucrezio, Virgilio e Petronio sono nostri compagni di strada e hanno ancora molto da dire a tutti noi, non solo ai filologi di professione. 



Uno dei libri divulgativi più fortunati di Luca Canali è stato Luca Canali racconta l’Eneide: in quelle pagine c’è tutto il tratto del latinista e del maestro di vaglia: con sicurezza e con quella capacità di rendere, se non semplice, almeno comprensibile anche l’argomento più arduo, che è il vero stigma del maestro e del fuoriclasse, il grande poema ci viene non commentato, glossato, edito, ma ci viene, raccontato con il piglio del narratore di razza…anche se non tutti, purtroppo, hanno mai avuto la fortuna di godere del privilegio di poter parlare di Virgilio con Luca Canali: un’esperienza magica, perché sapeva rendere vivi davanti ai nostri occhi Camilla, Evandro, Turno e Mezenzio, il tiranno spretor hominum divumque  alla cui morte, preceduta dal discorso al cavallo Rebo, dedicava sempre parole piene di profonda sympatheia. 



E proprio questa comprensione simpatetica era la cifra del suo rapporto con i classici latini: un entrare nel testo, con una sensibilità linguistica e stilistica strenua, per saper dialogare con Petronio, Seneca, Lucrezio; per continuare a dirci di non dimenticare mai le origini classiche della nostra cultura, di non cedere alla tentazione della faciloneria e dell’imbarbarimento (tesi centrale di Contro Attila, del 2009, corredata da interessanti riflessioni sulla attualità e l’attualizzazione dei classici); ma anche per trovare fili tematici che ci collegano a quegli antichi padri: antichi, ma sempre presenti in noi, come ogni padre che si rispetti; in una parola, per parlare anche di sé. 

Lungo questa linea si collocano quindi anche le sue autobiografie fittizie, rigorosamente di ambientazione classica: il diario segreto di Giulio Cesare, l’autobiografia di Marco Celio, l’allievo scapestrato di Cicerone, e, in primis fra tutte, quella di Lucrezio, Nei pleniluni sereni (Longanesi 1995), già finalista al Premio Strega, che reca un eloquente sottotitolo: Autobiografia immaginaria di Tito Lucrezio Caro. A Lucrezio, l’autore su cui Canali si era laureato a Roma con Ettore Paratore, fu dedicato il primo dei suoi giustamente famosi saggi, Lucrezio poeta della ragione (Roma 1965, idealmente contrapposto a Lucrezio poeta dell’angoscia di Luciano Perelli): e a volte, leggendo le sue riflessioni, ascoltando le sue parole, veramente, sembrava di udire una di-sperazione, proprio in senso etimologico, analoga ed equivalente a quella dell’autore del De rerum natura, a partire dall’amara constatazione che eadem sunt omnia semper, che tutto è sempre, eternamente, tragicamente, uguale a se stesso, senza nessuna variazione, in un mondo che è impastato di dolore, tanto che il male e il dolore potrebbero essere riconosciuti come gli atomi costitutivi del nostro universo. 

Una simile sensibilità per il dolore del mondo, certo acutizzata ed esacerbata dopo i lunghi anni della malattia, insieme a uno spirito combattivo e mai domo, vero “spirto guerrier”, gli faceva accomunare i piccoli e grandi soprusi e insulti di cui è erede la carne, per dirla con Shakespeare, e le sciagure universali (le guerre, i conflitti, la violenza della storia), con il dolore privato di ogni uomo, e persino con le pene degli animali, di cui era strenuo amante, in tutte le forme e in tutti gli aspetti: e proprio in questo senso si capisce il senso di una delle sue ultime prose, la bellissima riflessione in cui (L’immaginazione 279, gennaio-febbraio 2014) sognava un “mondo nuovo”, esente da questo dolore onnipervasivo, finalmente sereno, improntato a pietas per e fra tutte le creature.

E poi, c’è il Luca Canali prosatore, narratore, poeta: a partire dalla Resistenza impura: impagabile era sentir raccontare dalla sua viva voce l’episodio, accaduto negli anni Sessanta, di quando il terribile Ettore Paratore, di cui Canali era assistente, raggiuntolo nella biblioteca dell’Istituto di Filologia classica, gli chiese se avesse comprato il Corriere; domanda cui egli rispose di no (in quanto lettore de L’Unità), rivelando − unico fra gli assistenti del grande latinista − di non sapere che proprio a lui Montale aveva dedicato una pagina sul maggiore quotidiano italiano, definendo il suo stile “le circonvoluzioni d’una prosa civile quale da tempo non si leggeva in Italia” (la lettera è ora leggibile in Auto da fè, pp. 338-339)

Luca Canali fu un uomo di multiforme ingegno, dai grandi e molteplici talenti, non ultimo una sovrana padronanza dello stile, un vero Proteo della letteratura latina e italiana, sia in prosa che in poesia; però sapeva anche mitigare la sua strepitosa cultura e perizia tecnica con la gentilezza di chi non sale mai in cattedra con spocchia, con la curiosità umana, la disponibilità ad ascoltare e consigliare i giovani autori e studiosi, tutti tratti che sono la cifra dell’autentica humanitas: e c’è da stupirsi se, incontrandolo per la prima volta, mi tremavano le gambe per l’emozione?