Recentemente Eugenio Scalfari, di cui è nota una certa predisposizione per i paradossi, ha affermato che «Enrico Berlinguer ha avuto nella politica italiana (e non soltanto) un ruolo in qualche modo simile a quello che sta avendo oggi papa Francesco nella religione cattolica (e non soltanto)»; anzi, secondo il fondatore di Repubblica, le due figure avrebbero condiviso «un percorso di riformismo talmente radicale da produrre effetti rivoluzionari; […] – ovvero – tutti e due hanno avuto un carisma che coglieva la realtà e alimentava un sogno». Scalfari, per argomentare questo suo accostamento, enuclea tra i meriti ascrivibili in questo senso al leader sardo la rottura da lui procurata del Pci con il Pcus, nonché la sua idea di riequilibrio dei redditi da quelli medio alti a quelli dei lavoratori.



Tralasciando ora ogni considerazione sul presunto “riformismo” di papa Francesco, sul quale ogni giudizio storiografico è con evidenza del tutto prematuro – ricordo Giorgio Rumi, che ha sempre sostenuto la “presbiopia” dello storico, il quale vede bene le cose lontane e inevitabilmente male le vicine –, bisogna dire che anche nel caso del segretario dei comunisti italiani alcune cautele sarebbero ancora oggi opportune.



Certo, non si può negare che a Berlinguer vada ascritta, se non in toto almeno in parte significativa, la scelta “nazionale” del Pci: già nel 1976, in occasione di un congresso a Mosca dinanzi a diverse migliaia di delegati provenienti da tutto il mondo, il leader sardo aveva rivelato l’intenzione di costruire un socialismo “necessario e possibile solo in Italia”. In tutte le mosse di politica con riverberi internazionali, si potrebbe sottolineare l’esigenza, forse persino primaria, di Berlinguer di sottrarsi all’abbraccio (mortale?) del Pcus, così come attesta il tentativo di Madrid, appena successivo, di dar vita ad un progetto transnazionale di eurocomunismo tra le formazioni politiche di tradizione socialista di paesi fuori dall’orbita del Patto di Varsavia. Addirittura, lo sforzo di puntare ad un modello di partito non asservito dogmaticamente alle direttive di Mosca, lo avrebbe portato a ipotizzare l’avvallo di un potenziamento della (ipotetica) leadership internazionale del Partito Comunista Cinese.  



Sul piano nazionale, un elemento di indubbia per quanto sfortunata lungimiranza nel far politica di Berlinguer si potrebbe individuare nell’aver sollevato la questione morale in anni per così dire non ancora sospetti, pur dovendo patire egli su questa linea politica una sovrapposizione con gli intenti moralizzatori nazionalistici del Msi di Giorgio Almirante – un accostamento questo che, perlomeno in termini di immagine, qualcosa dovette costargli rispetto alla nettezza della sua conduzione riformista del partito. E del resto, la via italiana di lì a poco, e precisamente nel 1978, si sarebbe confrontata con la fase decisiva dell'”incontro” tra Stato e terroristi nell’affaire Moro, a cui è possibile ricollegare proprio la strategia (o tattica?) del “compromesso storico”, espressa negli accordi con Giulio Andreotti per i governi della “non sfiducia”.

Recentemente Ugo Intini ha espresso un concetto che appare piuttosto condivisibile se appunto si voglia spogliare la figura di Berlinguer di quell’aria di santità laica che i suoi più o meno disinteressati agiografi politici gli hanno voluto attribuire, sostenendo che, al di là della indubbia statura dell’uomo politico, “il carisma straordinario gli derivava anche, e forse soprattutto, dall’immenso valore morale, culturale, emotivo del Partito con la P – appunto – maiuscola, che gli stava alle spalle e del quale era fedele espressione”.

Ecco, comprendere oggi il grado di riformismo di Berlinguer, oltre a richiedere una grande attenzione per la lettura dei suoi interventi, delle sue riflessioni, non può poggiare sopra un’idea di leaderismo anacronistica, sovrapponendogli l’attuale strutturazione personalistica dei partiti della seconda (terza?) Repubblica. Tutto ciò che egli produsse, la sua stessa conduzione del Pci, i consensi notevoli che riuscì attrarre alla sua parte politica, sono certo ascrivibili a lui, quanto perlomeno lo sono a tutta la classe dirigente comunista di allora. E non è forse un caso che il suo partito operasse lo storico “sorpasso” elettorale sulla Dc proprio nel frangente della sua drammatica scomparsa.

Certo, almeno su un punto si può oggi affermare che la visione politica di Enrico Berlinguer ultimamente non risultò efficacemente riformista, perlomeno all’interno della governance del Pci: nell’intuire tra gli ormai evidenti scricchiolii del sistema sovietico, la “tigre di carta”, la impellente necessità di una trasformazione in senso postcomunista della socialdemocrazia italiana. Forse anche per questo, l’impegno onesto di Achille Occhetto di dare vita a un moderno partito della sinistra italiana dopo il crollo del muro di Berlino dovette risultare una sfida almeno provvisoriamente impari alle forze di una classe dirigente orfana di un suo grande condottiero.