La recente uscita della traduzione in prosa, da parte di J.R.R. Tolkien, del poema in Old English Beowulf ha suscitato l’entusiasmo di coloro che sono afflitti dalla Tolkien-o’-mania; ecco finalmente scoperchiato l’arcano pozzo da cui Tolkien avrebbe attinto per creare praticamente tutta la Middle Earth, con tutte le sue creature, dragone Smaug de The Hobbit in testa, visto che la vicenda umana di Beowulf, orfano e mai sposo, e privo di qualsiasi elemento di caratterizzazione psicologica, si “riduce”, nell’arco di una intera vita, a tre confronti con tre “mostri”: Grendel, la di lui madre, ed infine il dragone che gli toglie la vita.  



Credo di aver sviluppato, causa lunga frequentazione dell’opera di Tolkien come filologo e studioso, certamente nata dall’aver divorato, sedicenne, The Lord of the Rings in 24 ore, una certa resistenza al morbo della Tolkien-o’-mania; questa trasforma l’opera letteraria del professore di Oxford o in un fantasy brulicante di orchi, elfi, nani, draghi ed Hobbits, dove si sente il clangore delle spade e il frantumarsi delle ossa, ottimi per fare un videogioco truculento, o in una allegoria del “lato oscuro” che affascina la nostra anima e ci impedirebbe di “cercare le cose grandi”, dove gli attori sul palcoscenico sono proiezioni della psiche. Materialismo, o spiritualismo.



La mia resistenza nasce dalla profonda conoscenza del poema anglosassone non mia, ma di Tolkien;  la sua cattedra a Oxford comportava commentare la prima metà di Beowulf agli studenti del suo corso, e prima della rivoluzione operata dalla sua conferenza The Monster and the Critics del 1936, tutto il gioco si riduceva ad un esercizio filologico, ad un saccheggio storico e alle critiche relative alla struttura narrativa dell’opera. Tolkien spazzò via tutto, inaugurando l’era d’oro di Beowulf, al punto che la traduzione in versi di Seamus Heaney del 2001 non solo riscosse il Whitbread Award, ma anche un gradissimo seguito di lettori. Ma il diffondersi della Tolkien-o’-mania ha ferito non solo il corpus letterario di Tolkien; è rimbalzata sul poema anglosassone, a dir di Tolkien, non epico, ma elegiaco, che lui aveva tradotto senza mai decidersi a pubblicarlo. Certo non perché non lo avesse presente, visto che “Hwaet”, la parola che apre il poema, era il suo saluto in apertura delle sue lezioni, inteso dagli studenti come “Quiet!” (Silenzio!”). Forse i suoi commenti, sotto forme delle conferenze da lui tenute e che Christopher Tolkien ha annesso alla traduzione (trasformando una novantina di pagine in un ben più corposo volume), sono ancora utili  a capire che cosa mai  l’Inkling cattolico avesse in mente, passando dalla penna rossa per correggere le prove d’esame a quella nera per scrivere le sue opere letterarie.  



In The Monster and the Critics, da conoscitore del poema (e anche amante della “dark ale”, una “birra scura” dal sapore deciso, la sua definizione di Beowulf in On Translating Beowulf del 1940 a proposito della traduzione di Wrenn), Tolkien pone il problema filologico come centrale all’ermeneutica del testo; l’autore di Beowulf, cristiano, narra un mondo pagano, dove Grendel è un discendente sia di Caino che del Worm, il verme che avvolge il mondo, in un mondo tutto nordico, e non mediterraneo, dove gli dei sono alleati degli uomini in una lotta impari nella quale il mostro vince, e dove rimane solo il lof, onore e fama, e senza Campi Elisi. Nell’Appendice dedicata ai Grendel’s Titles Tolkien passa in rassegna (vera delizia per i veri Tolkien-o’-maniacs) i nomi di Grendel in Old English ed arriva a questa conclusione. Grendel “is not when wrestling with Beowulf a materialized apparition of soul-devouring evil” (“non è, mentre lotta con Beowulf, una apparizione materializzata del male che divora l’anima”). Altra storia è quella del terzo mostro, un dragone con ali che cova un tesoro da trecento anni; Beowulf è vecchio e, l’autore ce lo ripete quattro volte, morirà nello sfidarlo, come infatti accade. Solo il lof resta, sia pur con un accenno di contaminazione verso cieli non più vuoti. E  Grendel, ci avvisa Tolkien, è “una controparte reale al dragone nella storia di Beowulf”. 

Occorre quindi distinguere bene, e non fare di tutti i mostri un fascio, anche se questa operazione “facilita le interpretazioni” di Beowulf l’eroe come una allegoria del desiderio umano di “volersi dedicare a cose grandi”, a cui, allegoricamente (ma forse “schematicamente” sarebbe parola più adeguata) il nostro lato oscuro, il mostro, resisterebbe. Tolkien e l’autore di Beowulf, entrambi  cristiani, capiscono meglio del mondo pagano che creò Beowulf la differenza fra “un orco diabolico, ed un diavolo che si rivela in forma d’orco”, e sanno che nessuno dei due è il “dark side”. Di certo non quello di Star Wars.