Come spesso vien detto, ciò che contraddistingue i classici sarebbe la capacità di offrire spunti a letture ed appropriazioni sempre diverse. L’occasione più propizia per assistere alla notevole varietà di tali interpretazioni è probabilmente quella di un centenario. Il 2013, come già ho avuto modo di ricordare in queste pagine, ha visto il settimo centenario della prima pubblicazione dell’opera più celebre e discussa di Niccolò Machiavelli, Il Principe. Non sono mancate quindi occasioni di vario genere, da una splendida mostra al Vittoriano, esportata tra l’altro anche in Corea oltre che negli Stati Uniti, a riprova dell’interesse tutt’altro che trascurabile che il Segretario fiorentino incontra anche in un estero esotico, a una nutrita serie di convegni (l’ultimo, sulla sua filosofia politica, si è svolto ancora pochi giorni fa a Perugia).
All’immagine più ovvia, quella del fondatore della scienza politica all’insegna del realismo, si affiancano letture originali, talvolta più creative che filologicamente attente; ma proprio questo è il senso delle appropriazioni di cui sopra, che rendono Machiavelli sempre attuale. Cerchiamo di orientarci su un punto cruciale. Quale è l’inconciliabilità fondamentale tra Machiavelli e l’altro geniale teorico del realismo agli albori della modernità, ossia Thomas Hobbes? Non mi riferisco qui alle differenze sui temi del contratto o dell’assolutismo, che in Machiavelli sono addirittura assenti mentre in Hobbes fondamentali; ma ad una divergenza ancora più radicale nell’impostazione basilare e nella maniera di guardare alla politica.
Come da ultimo alcuni autori italiani hanno osservato (Roberto Esposito, o Laura Bazzicalupo al convegno perugino cui si faceva cenno), il punto è che Machiavelli non pensa di eliminare la dimensione del conflitto, che Hobbes invece ambisce a espellere dal suo progetto. Per Machiavelli il conflitto è ineliminabile. La società continua a essere segnata dall’uso della forza e della ragione strumentale, in ultima analisi da una sorta di ostilità e rapacità originaria (non a caso espressa nell’animalità della golpe e del lione) ben lontana dalla creazione hobbesiana di una struttura artificiale che dovrebbe neutralizzare ed estromettere le spinte disgregatrici.
Questa opzione, che senza dubbio è nutrita della ricca cultura umanistica e storica in cui Machiavelli si forma, fa sì che la sua visione sia molto meno intellettualistica e alla fin dei conti proprio più realistica. Però: il realismo è tale in quanto è ambiguo e ricco di mezze tinte. Un’arte delle sfumature e della varietà delle interpretazioni non si arresta al primo livello: sottolineare solo il conflitto sarebbe a sua volta unilaterale. L’ordine in Machiavelli esiste, solo che non è simile a quello immobile di una statua bensì a quello di un organismo.
Come gli umori, nella dottrina classica della salute, tra loro si differenziano e in certo modo combattono, e solo così il metabolismo procede; così nella società il conflitto viene costantemente frenato e provvisoriamente risolto, a livelli diversi e non preordinati. I teorici contemporanei del conflitto mancano di vedere l’altra faccia della medaglia: le regolarità che la storia insegna a chi la studia con acribia, e l’ordine che è infine l’oggetto ricercato, anche se non totalmente stabilizzato né teoricamente definito, da parte della politica.
La stessa ambiguità serve a ridimensionare le periodiche tentazioni di edulcorare Machiavelli ovvero di esonerarlo dal suo stesso pensiero nella misura in cui è davvero scandaloso. È curioso che il moralismo antimachiavelliano, che all’interno del quadro della tradizione politica classica era in fin dei conti giustificato, riaffiori ogni tanto, anche se in forma assai diversa ossia come volontà di attenuare lo scandalo, in tempi che non sanno più in cosa consistesse quella tradizione. Dire che virtù e fortuna sono strettamente intrecciate è assolutamente vero e conferma l’impasto antintellettualistico di Machiavelli: nessuno può controllare razionalmente e domare fino in fondo la sorte; ma ciò non significa che l’autore fiorentino non abbia una visione i cui fattori fondamentali sono pur sempre l’efficacia e la capacità di pensiero strumentale. L’amoralità, in questo senso, fa parte davvero del progetto machiavelliano, contrariamente a quanto afferma Armando Massarenti in un articolo per il resto stimolante sul Sole 24 Ore, perché per un approccio effettivo ai fenomeni politici e sociali occorre prescindere metodicamente dalla morale. Solo che l’autentico realista, proprio perché è realista, sa che l’uso anche amorale della propria intelligenza non può parare infine tutti i colpi della fortuna.