Vittorio Alfieri è il grande antipatico della letteratura italiana. Poco amato e poco letto, se non per obbligo scolastico (ma sempre meno), un po’ per sua diretta responsabilità, molto per l’immagine che di lui trasmisero i posteri. Che cosa sanno oggi gli italiani di Alfieri? I giovani quasi nulla, gli adulti forse solo la feroce ostinazione del “volli, sempre volli, fortissimamente volli”, che ci fa pensare al giovane disposto a farsi legare alla sedia pur di studiare, e che vuole assolutamente diventare, riuscendoci, il maggiore scrittore tragico italiano. Analogamente, a quasi cinquant’anni si mise a studiare il greco, fino a padroneggiarlo discretamente.
Oppure si pensa al ritratto che ne tratteggiò il suo più diretto erede, Foscolo, che nei Sepolcri lo vede sostare pensoso davanti alle tombe dei grandi, o errare “muto/ dove Arno è più deserto”, dipinto sul volto “il pallor della morte e la speranza”. Goethe, che pure lo stimava, lo definì un “iperaristocratico”. Le sue tragedie, anche i capolavori riconosciuti come Saul e Mirra, incontrano scarsi favori sulle nostre scene. Dopo Gassman (Vittorio anche lui, e nomina sunt consequentia rerum!) non si vede in Italia chi altri possa degnamente rappresentarlo in palcoscenico. Eppure, se ci accostassimo senza pregiudizi alla sua Vita scritta da esso, resteremmo abbagliati da tanta freschezza narrativa. Cominciata nel 1790, a poco più di quarant’anni, all’indomani della delusione per gli sviluppi autoritari della Rivoluzione francese, e completata nel 1803, pochi mesi prima della morte, l’opera ci appare sicuramente come la migliore autobiografia del nostro Settecento “e forse non solo del Settecento”, come chiosava il compianto Ezio Raimondi, che al grande astigiano dedicò pagine luminose.
Tutta la Vita è percorsa dalla ricerca della vocazione, artistica e umana; ed essa arriva, nelle forme più imprevedibili, come un avvenimento. La prima folgorazione giunge a vent’anni, dopo anni di ineducazione, “asino tra gli asini”, quando gli capita tra le mani Plutarco. Leggendo “le vite dei veri Grandi”, scopre l’esistenza di uomini all’altezza dei suoi desideri e che il fascino della vita si rivela in un particolare, a cui bisogna dedicarsi completamente. Sarà la scoperta della lettura. Cinque anni più tardi, dopo una “malattia fierissima e straordinaria” che ha il sapore di una cesura con il passato, comincerà “così a caso, e senza aver piano nessuno, a schiccherare una scena di una non so come chiamarla, se tragedia o commedia”. Sarà la scoperta della scrittura.
Alfieri dedica numerose e interessantissime pagine al fattore educativo: di fatto egli è il primo scrittore italiano, sulla scia di Rousseau, a rilevare l’incidenza dei temi pedagogici e psicologici nella letteratura. L’autore maturo dà voce al dolore del giovane scolaro: in quella “scoluccia” mancano i veri maestri in grado di educare, e non solo di istruire, l’animo dei giovani.
Implacabile scende il suo giudizio: chi curava quell’organizzazione “era uno stolido, e non conosceva punto il cuore dell’uomo”. Oggi come ieri, giovani inquieti e sensibili chiedono uno sguardo valorizzatore dell’adulto. La sua “irrequieta indole” lo spinge a viaggiare per tutta Europa, antesignano del Grand Tour degli scrittori romantici, preferendo sempre distese ampie e deserte, corrispettive del suo animo. E la Vita è uno straordinario viaggio tra resoconti etnico-geografici, mirabolanti avventure, ora galanti, ora comico-tragiche, alte riflessioni socio-politiche, letterarie e filosofiche, fiere invettive antitiranniche, inni di appassionato amore per i cavalli, autentici simboli di libertà. L’autobiografia alfieriana è, nella lettura di molti critici, il primo grande romanzo della nostra letteratura, capace di anticipare la scoperta dell'”io”, realizzata poi da Foscolo nell’Ortis e da Leopardi nella sua grande lirica.
Ma, si diceva, domina su tutto la scoperta della vocazione, intuita nella forma del Vero e del Bello “che non son se non uno”. L’autore, stupito, ne registra la fenomenologia quando compone le prime tragedie. Occorre essere disponibili e ascoltare “la segreta voce”, che si fa sentire “dal fondo del cuore”: il gesto primo di una volontà di cambiamento è un ascolto, un’obbedienza, ed anche una mortificazione, quando occorre. Del resto, il verbo “obbedire” deriva da ob audire, cioè ascoltare intensamente. La creazione inizia con un abbandono.
Alfieri ci testimonia così che il nostro desiderio deve essere educato, non lasciato a se stesso; qui si misura la distanza del grande autore dal sentimentalismo più vieto, portato a mitizzare la spontaneità del sentire. Il “forte sentire” dei nostri grandi scrittori dell’età romantica non va confuso con un’irrazionale e sfrenata effusione dei propri sentimenti, i quali vanno sempre invece coltivati con rigore inflessibile. Umilmente, Alfieri capisce che deve percorrere un tratto faticoso per disporre pienamente dello strumento linguistico. Scrittore fondamentalmente autodidatta, egli sa rovesciare i limiti di una mancata formazione nella matura consapevolezza della decisione assunta: l’uomo adulto sa cosa c’è in gioco e non perde occasioni per migliorarsi, senza inutili lamentele.
Sa che la “maturità è tutto”, Ripeness is all, come ammoniva Shakespeare nel King Lear, in un passo che tanto colpì Pavese. “E tanto gridò questa voce, ch’io finalmente mi persuasi, e chinai il capo e le spalle”. Basterebbe questa meravigliosa frase a testimoniare l’umile grandezza del nostro scrittore, tante volte presentato − talvolta anche a causa sua – nella sua maschera più stentorea, il che ha contribuito ad allontanarlo dalla simpatia del lettore comune. Come si vede, sono sufficienti poche note per far emergere un’immagine di Alfieri ben diversa da quella consegnataci da una improvvida manualistica.
Della Vita di Alfieri esistono svariate edizioni economiche. Si veda, per l’ottima cura, l’edizione Garzanti, con introduzione e note di G. Cattaneo.