Editor e ufficio stampa per la poesia della Mondadori, Francesco Napoli è uomo leale e appassionato, nonché uno dei critici letterari più attenti e coraggiosi nell’esplorazione e nel tentativo di mappare quel che accade nella poesia italiana dei «viventi». Di quella strana genìa, cioè, che si ostina a credere che la poesia serva a vivere e non sia da confinarsi alle lapidi o alle tre righe delle antologie scolastiche.
A testimonianza di questa sua coraggiosa attenzione – oltre a libri come Novecento prossimo venturo (2005) e Poesia presente (2011) – troviamo l’avventura dell’Almanacco dei poeti e della poesia contemporanea che, partita lo scorso anno in combutta con Gianfranco Lauretano e con l’editore Walter Raffaelli, giunge in questi giorni alla sua seconda tappa (Almanacco dei poeti e della poesia contemporanea n. 2, a cura di Gianfranco Lauretano e Francesco Napoli, Raffaelli, 35 euro). Opera ampia ed elegantissima, come solo i libri fatti da veri appassionati, l’almanacco si articola in cinque «Quaderni», ciascuno incaricato di scandagliare un settore della poesia dei nostri giorni: abbiamo così il quaderno Europa, dedicato al dialogo di Hans Kitzmüller con la poesia austriaca; Lavori, vetrina dei «lavori in corso», tra gli altri, di Umberto Piersanti, Valerio Magrelli ed Etel Adnan, arabo-cristiana libanese dallo sguardo e dalla lingua luminosi come i suoi novant’anni; Segnalazioni, in cui vengono accolte voci ancora poco note agli stessi addetti ai lavori, come la brava Laura Corraducci; e i due quaderni «regionali»: quello sulla poesia còrsa a cura di Emilio Coco e l’Intercontinentale, mirato all’area latino-americana.
L’occasione del nuovo almanacco è allora l’occasione per fare due chiacchiere con l’amico antologista, non tanto sulle scelte fatte, ma sulle ragioni che le hanno mosse: le ragioni penultime della poesia contemporanea e quelle ultime della poesia tout-court.
Francesco, per il secondo anno consecutivo ti sei imbarcato nell’avventura gratuita (nel senso di non pagata!) e faticosa di costruire questo almanacco. Chi te lo fa fare? Vale davvero la pena che la poesia di oggi sia fissata su carta e fatta circolare?
Chi me lo fa fare? La passione: ha la sua gratuità, ma regala anche libertà di movimento, e cioè di scegliere, scommettere e sbagliare da soli. E poi lo scambio con i miei compagni di avventura è davvero impagabile. Quanto al pubblicare su carta, invece, ne ha molto di senso: credo che la carta abbia un valore «autoriale», che crei un binomio indissolubile con l’incisività della parola poetica.
Nel tuo lavoro di censimento, hai in più occasioni rimarcato la necessità di «non sottrarsi più a un’indagine che non sia prima di tutto storica» (Poesia presente, p. 10); dall’altro lato, hai comunque tentato di individuare nuclei tematici e stilistici comuni. Queste tensioni all’apparenza divergenti, come s’intrecciano nella lettura di quel che i poeti fanno, scrivono e – menzogna ultima – dicono di sé?
Partirei dal fondo. Anzitutto, dici bene «menzogna ultima» perché i poeti, quelli veri e autentici, non parlano di sé neppure quando spingono all’impazzata sul pedale dell’io. Per questo credo nel valore della storia, perché «contestualizza» l’artista e la sua arte e sono convinto che ci permetta di leggere con più precisione noi stessi e le nostre cose. Poi, proprio perché la storia non può essere mai avulsa e a se stante – ancor più in un contesto come la poesia, la massima espressione creativa in Italia oggi – i temi e i motivi, che sono il sale del fare poesia, devono per necessità entrare in ballo in un’indagine critica seria. E una critica seria non mira mai a fare classifiche, ma sempre a porre prospettive: e perciò chiama a schierarsi scegliendo.
Tentando di periodizzare il Novecento poetico italiano, poni come punti di frattura la pubblicazione del Porto Sepolto di Ungaretti (1916) e la morte di Pasolini (1975). In questi sessant’anni, dici, la linea poetica dominante è quella del simbolismo, cui succede – nei quarant’anni successivi che portano a noi – «una forte ripresa delle poetiche dell’allegoria, e quindi più Dante che Petrarca, più Eliot che Mallarmé» (Poesia presente, p. 12). Questo aspetto che incidenza ha nei confronti di chi la poesia la legge per godere dell’arte e non per definirla?
Se è vera la mia supposizione critica, il puro lettore della poesia che s’appresta a prendere in mano versi di poeti simbolici o allegorici si troverà di fronte a due prospettive differenti: i primi s’inerpicano sulla parola per «stupire» chi legge e per restituire della realtà una visione trasposta attraverso un’altra realtà descritta; i secondi, invece, fanno fluire la parola per «accompagnare» chi legge e per provare a indirizzare verso una realtà altra da quella visibile. Ora: per chi fa versi, nutrirsi dell’uno o dell’altro credo che provochi una concezione diversa del modo attraverso il quale provare a interpretare l’Essere e del mondo, e che chi tende all’allegoria tenda con più forza a un’alterità da sé. Se questo è vero, si capisce che gli esiti, da intendersi alla lettera e quindi non come resa qualitativa ma come «uscita», saranno diametralmente opposti, o quasi. Spero d’essere stato chiaro… Più allegorico che simbolico!
Tra i caratteri che rilevi nella poesia post 1975, c’è la rottura della koiné linguistica e il suo sfarinarsi «in un pulviscolo assolutamente unico» per la nostra poesia, «senza danno alcuno», sottolinei, «per gli esiti» (Poesia presente, p. 12). Eliot sostiene, nella conferenza Che cosa Dante è per me (1950), la maggiore grandezza di Dante rispetto a Shakespeare, per il fatto che il primo ha consegnato una lingua «usabile» al suo popolo, mentre il secondo ha creato un idioletto meraviglioso, ma utile solo per entrare nel suo sistema di visione, non «importabile» nell’uso comune. Il non tentare la ricostituzione di un linguaggio artistico comune sul quale operare il proprio scarto personale, non rischia di rendere l’esercizio della poesia l’esibizione del proprio singolare mondo privato, anziché la comunicazione del proprio singolare rapporto col mondo?
Mi corre l’obbligo di puntualizzare che Dante e Shakespeare sono gli apici, ma sotto di loro cosa succedeva ed è successo? Che in Italia la poesia sia un pulviscolo di esperienze e modalità mi par certo: se poi questo pulviscolo possa raddensarsi in un grumo più consistente è da vedersi. Personalmente, in prospettiva, non lo vedo, ma è qualcosa che pertiene più alla cartomanzia che alla critica. Il rischio che tu paventi, piuttosto, è quello solito della cattiva poesia: quella buona e che sa dire le cose del mondo e dell’Essere, pur se «pulviscolata», non offre visioni private, tutt’altro, come ho già detto. Che poi l’allegoria abbia maggior forza e penetrazione anche verso la società… Beh, su questo ho pochi dubbi: non sono io a dirlo, è la storia stessa della poesia del mondo che lo fa.
(Daniele Gigli)