“Sono stato abbastanza fortunato da condurre una vita priva di eventi particolari”. È a Sandra che penso, l’amica che oggi, giorno del cinquantesimo della morte di Morandi, si siederà dietro a un banco per iniziare la prima prova del suo esame di maturità, e ai nostri recenti colloqui in cerca di argomenti per una tesina che “rompe”.
La tesina di Sandra nelle sue intenzioni doveva essere come lei: una cosa “di rottura”. Perché “non se ne può più di questa vita sempre uguale, così noiosa, così povera di emozioni forti che se non ti fumi almeno ogni tanto uno spinello non ci dà tregua”… e i sogni? La voglia di esperienze diverse, di mondi che a occhio nudo e a consumismo pratico non si riescono mai a cogliere? E così, da confidente le provo di rispondere che “un’altra realtà” non equivale necessariamente a un “realtà Altra”: che è quella che – forse – lei cerca.
Potevo – a pensarci – risponderle proprio con le parole di Giorgio Morandi, il pittore che viaggiò sempre in disparte, sfiorando appena il Futurismo, dai movimenti e dalle correnti dei suoi anni, gli anni della prima metà del secolo scorso.
Lui che nella sua stanza-studio, dove dipingeva e dormiva tutto assieme – la “camerella incantata” come la chiamava il Longhi – posava gli oggetti più apparentemente banali là, sui canterani o sui tavolacci coperti di carta da pacco, in attesa. Attesa che la polvere desse loro la patina che solo il tempo sa dare alle cose e così che esse, da semplici caraffe col manico ad anfora e il becco largo o barattoli dell’ Ovomaltina, fiammiferi scoloriti, teiere o tegami, vasi o scatole, si trasformassero in forme dallo sterminato potenziale narrativo.
Morandi era nato nel 1890 e in quello scorcio di fine secolo la stagione del naturalismo aveva consumato la sua crisi come pure andava a chiudersi la stagione simbolista. Fu allora che cominciò a riproporsi l’idea cézanniana dello “spazio” alla base di una ricostruzione dell’universo. In Italia fu Fattori a trattare l’aspetto del rapporto delle “strutture”. Soffici sosteneva che Fattori come gli antichi e come Cézanne rappresentava i dati del vedere “nell’immediato momento della loro significazione”, cosicché le strutture dell’immagine divenivano capaci di esprimere il movimento non secondo lo stile impressionista di un continuo flusso luminoso, ma come forza propria interna. La percezione di un “debito” morandiano con Fattori aiuta forse ad afferrare meglio come all’interno di un costrutto della massima sinteticità architettonica le cose possano fluttuare “senza che la forza di gravità abbia la possibilità di manifestarsi” (Giudici).
Ed è convinzione della critica che alcune vedute di Grizzana debbano il loro impianto armonico al Muro bianco di Fattori, così come alcune Nature morte degli anni dal ’23 in poi non potessero essere concepite – nel rapporto verticale con il piano d’appoggio e con lo spazio di profondità − senza l’esistenza di un capolavoro come La rotonda di Palmieri.
E mentre negli anni dell’Accademia, a Bologna, assieme al compagno di corso Osvaldo Licini si “abbeverava di cubismo” e prima della guerra “combatteva per il futurismo”, rispetto sia al primo che al secondo e ai suoi derivati assumerà una posizione totalmente libera e diversificata.
Là dove il “compagno Pablo”, come ebbe a chiamarlo Guttuso, “dimostrava che l’arte pur essendo legata alla società in cui si sviluppa, reagisce a quella società stessa e contribuisce a a modificarne la struttura e, quando i tempi siano maturi, ad abbatterla”, cioè dove l’opera dell’astrattismo lungo tutto il suo procedere nel secolo XX marcherà la destrutturazione del dato oggettivo come “rivolta” a canoni e codici stabiliti, Morandi alla scomposizione preferirà sempre la costruzione. Dove l’attacco era alla prosaicità dell’oggetto che non poteva rifiutarsi al vortice del movimento impresso da Boccioni e Balla in avanti, Morandi sempre preferirà la lentezza della forma-volume che si stacca dal fondo come per un arcano senso di non appartenenza allo spazio.
A questo contribuisce in maniera determinante quello che Marchiori definirà “l’incanto di una visione coloristica ricca di motivi e di modulazioni pur nel suo basso registro”. Tavolozza alla cui resa molto contribuisce la scelta di far giungere la luce naturale filtrata dai “velari”, telai ricoperti di canapa da porre davanti ai vetri delle finestre. È così che la luce gioca un ruolo “metafisico” nel rilevare e ammorbidire, nell’evidenziare e nel dissimulare. La luce diventa perlacea, capace di distribuirsi prima sulle cose, poi, come è stato giustamente rilevato, dentro le cose stesse.
Anche se l’impazienza ideologica porta certi critici a chiedersi: “Perché Morandi ha scelto questi contenuti? Da un pignattino di coccio, da un lume smesso non nasce l’arte, anche se a Morandi pare” (I. Cinti, Perseo, 15 aprile 1937), ritenendo che “col nulla non si può dipingere”, resta decisivo il giudizio del ’45 del Longhi: “Oggi che la palla della pittura italiana è sospesa sulle magre dita della più giovane generazione, senza che si veda se andrà a cadere nel cesto di cenci colorati di un più che frettoloso romanticismo o in quello della più ‘centristica’ nullità mentale e morale, il maestrevole percorso di Morandi potrà servire di lezione ai migliori, proprio per l’umana sostanza; come stimolo a ricercare ancora dentro di sé; non fuori di sé”.
Eppure, in Italia, in commemorazione di questo poeta di mondi (parafrasando Rebora) “stupefatti di silenzio”, pochissimo si è organizzato. Ricordiamo Grizzana, da Morandi definito “Il paesaggio più bello del mondo”, paese dell’Appennino tosco-emiliano, dove, dall’estate del 1913, si recherà ininterrottamente a riposare e dipingere, per tutta la sua vita.
In occasione del 50esimo anniversario della morte di Giorgio Morandi, Grizzana apre i suoi luoghi agli artisti contemporanei con la rassegna “Grizzana ricorda Morandi” (11 luglio-30 ottobre 2014), organizzata dal Comune. Per l’occasione lo storico dell’arte Eugenio Riccomini ne parlerà con Eleonora Frattarolo, che cura la direzione artistica.