La recente sentenza della Consulta sull’illegittimità del divieto di fecondazione eterologa, già commentata su queste pagine, si presta anche a una lettura diversa dall’analisi giuridica, così come dalle numerose considerazioni di stampo sociale ed economico che è possibile fare.

Il punto che ritengo più interessante, oltre all’ennesima conferma che la decisione politica viene, in questo Paese, regolarmente sostituita da quella giurisprudenziale, riguarda quella che potremmo chiamare concezione terapeutica, che si afferma sempre più e in maniera pressoché incontrastata. La Corte costituzionale infatti giustifica la propria decisione (anche) in termini di “diritto alla salute”. Evidentemente la salute è un bene; che però spesso diventa una ideologia assai potente. È il progetto di un benessere perfetto e mitico, il cui spazio si allarga irresistibilmente, da ciò che è strettamente organico e corporeo (alimentazione ortoressica, prevenzione e screening ossessivi, terapia, riparazione e sostituzione degli organi…), a ciò che riguarda i fattori imponderabili della mente. Come è noto, già la legge 194 aveva compiuto questo passo per giustificare, ma anche delimitare, la liceità dell’aborto. In realtà, garantire il benessere psicologico secondo questa logica dovrebbe legittimare, ad esempio, la distribuzione di psicofarmaci per tutti, a scopo terapeutico ma anche migliorativo: non solo contro la depressione ma anche per correggere caratteri insoddisfatti. E una somministrazione oculata garantirebbe ottimismo e allegria molto meglio di figli, che per definizione, in quanto esseri umani, possono riservare delusioni e si presentano con le loro irriducibili specificità. 



Che l’esempio sia provocatorio e lievemente fantascientifico (ma ancora per quanto?) ci suggerisce che qualcosa non funziona nell’obiettivo del benessere o della felicità a tutti i costi. Sarà forse difficile ammetterlo, ma il fatto è che questi fini non possono essere perseguiti in maniera priva di equilibrio e saggezza. Proprio costruirsi aspettative che ignorano per principio la lezione del limite antropologico rischia di incamminare, come in tutti gli investimenti narcisistici, verso la delusione. 



Detto altrimenti: l’ideale che percorre le utopie della perfezione e dell’abolizione dell’insicurezza è un’umanità serena e pacificata, immune da qualsiasi turbamento della propria condizione garantita. Ma questo stato adolescenziale prima o poi si scontra con la realtà. La ferita del proprio narcisismo, la scoperta di essere fragili, difettosi, magari impossibilitati a procreare, e anche un po’ infelici, diventa tanto peggiore quanto più viene procrastinata. Insomma, l’uomo che persegue il proprio diritto alla felicità ci si avvicina tanto meglio quanto più cresce nella verità anziché nel delirio di neutralizzare ogni ferita.



La mancanza di misura nella ricerca dell’obiettivo del benessere incide negativamente anche in un altro senso. Tale legittimo proposito deve trovare il proprio limite nei diritti di altri che fossero eventualmente coinvolti. In realtà somministrare psicofarmaci allo scopo di conquistare felicità avrebbe almeno questo vantaggio: non coinvolgerebbe altri soggetti. 

Il vero punto debole dell’impostazione della Corte consiste nella strumentalizzazione di un altro soggetto, anzi più precisamente nella produzione di un soggetto, che dunque diviene oggetto, allo scopo di garantire (si fa per dire) il benessere psichico altrui. Si tratta di un chiaro esempio dell’utilizzare gli altri come mezzi anziché come fini, individuato da Kant, nell’intuizione più profonda della sua filosofia morale, come il segno ultimo della perversione morale. 

Si può osservare che anche in coppie che non ricorrono a tecniche terapeutiche talvolta e forse spesso i figli sono in certo senso mezzi anziché fini. Ma si dimentica un punto. Qui si tratta di andare oltre le normali manchevolezze e inadeguatezze, spia a loro volta del legno storto di cui è fatta l’umanità, del rapporto genitoriale. Qui la strumentalizzazione, la spinta ad acquisire una scorciatoia che sembra garantire una gratificazione altrimenti impossibile, pare comandare anche di diritto, senza più ostacoli.

Un’osservazione anche sull’argomento, così spesso avanzato, di pareggiare la legislazione italiana a quella di altri Paesi per evitare la pratica del turismo procreativo. Spiace trovare questo ragionamento scadente all’interno delle motivazioni di una sentenza di tale importanza. È paradossale che un sistema giuridico che sostiene una norma si senta tenuto a cambiarla perché qualche cittadino potrebbe recarsi, o anche si rechi effettivamente, all’estero. Dato che in molti Paesi è tollerato, e in alcuni è anche legale, sposarsi senza limiti di età, se qualche italiano si recasse lì a cercare una moglie bambina dovremmo forse cambiare le nostre leggi? Non solo non accadrebbe, per fortuna, ma probabilmente ci sarebbe un vasto movimento di indignazione.