Un libro godibilissimo, “Anime russe” di Giuseppe Ghini, che introduce il lettore ai tre grandi protagonisti del cosiddetto realismo russo: Turgenev, Tolstoj, Dostoevskij. Lungi dal voler esaurire tali giganti in poche pagine, l’autore ne inquadra invece alcune tecniche e alcuni personaggi seguendo il filo rosso di ciò che definisce “antropologia tripartita”.
Il titolo di questo pregevole saggio è già rivelatore di ciò che separa il realismo russo da quello del resto del mondo e lo rende ad esso infinitamente superiore. Perché, se tutta l’Europa di secondo Ottocento è tesa a studiare l’uomo nella società, la Russia aggiunge una dimensione più profonda. All’uomo razionale cartesiano, che vive a due dimensioni, quella fisica e quella psichica (soma e psyché), la profondità russa aggiunge la preziosa, irrinunciabile sfera spirituale (pneuma). È l’uomo a tre dimensioni, l’uomo tutto intero.
Turgenev (1818-1883) individua nei suoi personaggi un “mistero” che impedisce loro di conoscere veramente se stessi; conseguentemente, attraverso la “poetica dell’accenno”, egli lascia intuire al lettore i turbamenti degli animi senza spiegarli né descriverli. Diversi dei suoi protagonisti vivono di ideologia astratta o di ideali romantici e diventano concreti e umani solo attraverso una crisi e, spesso, pagando di persona. Fondamentale, in tal senso, è la scoperta dell’amore quale facoltà prima. Come sarà in seguito teorizzato da Scheler, l’atto originario che pone l’uomo in contatto con il mondo è proprio l’amore (volontà di significato); esso viene ben prima della razionalità o della volontà di piacere; ben prima della volontà di potenza e, diremmo, anche prima dell’atto immaginativo-creativo dei romantici. Turgenev illustra il superamento dell’uomo ideologico ed espone il pensiero positivista e darwinista come la filosofia del nulla, del caos primordiale (non a caso, fu proprio il suo romanzo più famoso, Padri e figli, a sdoganare l’aggettivo derogatorio nichilista). L’uomo riuscito, in Turgenev, passa dal caos dell’ideologia al cosmos dell’amore, che imprime al mondo un nuovo ordine. Così le opere di Turgenev spianano la strada per le opere maggiori dei due romanzieri supremi.
Lev Tolstoj (1828-1910) era un uomo tormentato e pieno di insanabili contraddizioni, al tempo stesso egocentrico e umile, superbo e altruista, perfezionista e dolorosamente peccatore, religioso e ateo, grandissimo artista e nemico dell’arte, nobile e populista. Il più tragico di tutti i suoi personaggi, secondo Pietro Citati. Lo seguiamo nel tratteggio di alcune delle sue creature indimenticabili, Nataša e Andrej, Anna Karenina, Nikita, Ivan Il’ic, e ogni volta ci identifichiamo con loro totalmente. Perché “nella rappresentazione dei sentimenti interiori, consci e inconsci, Tolstoj è davvero insuperabile”, tanto che le sue intuizioni geniali precorsero diverse branche della psicologia moderna.
Nella sua spietata sincerità, nella sua condanna di ogni forma di ipocrisia, Tolstoj spoglia l’uomo da tutti gli orpelli e lo pone di fronte alla vita senza maschere, senza difese. Non gli interessano gli ambienti o le condizioni sociali: non direttamente, almeno. Troneggia invece, tra i suoi temi ricorrenti, quello della morte.
Proprio per questo le sue opere, e i suoi personaggi, pulsano di vita; anche se talvolta sono tanto ripiegati su se stessi da perdere di vista il mondo circostante. Ma poi, improvvisamente e del tutto gratuitamente, alcuni di loro entrano in una dimensione spirituale e si ritrovano a un passo dalla comprensione del mistero del mondo. Più in là non riescono ad andare: sarebbe un incontro con un Ineffabile che Tolstoj non voleva identificare in nessuna religione rivelata. Per questo, quest’uomo in perenne ricerca si prese una scomunica.
Dei tre, Dostoevskij (1821-1881) ebbe certo la vita più difficile, continuamente minacciato dai debiti, da varie instabilità, dalla precarietà di vita; ma neppure lui scelse, come avrebbero potuto fare Balzac o Zola, di comporre opere socialmente impegnate. Al contrario, persino quando l’idea di un romanzo è innescata da un evento politico (come nei Demòni), ciò che gli interessa è l’uomo interiore. I suoi protagonisti sono uomini sofferenti e dilaniati, incompresi, a volte psicopatici, che vengono come sezionati, straziati, infine ricondotti ad unità. Il combattimento morale esplora abissi fino ad allora inaccessibili, la sofferenza e il peccato si aprono alla dimensione trascendente e si fanno talvolta espiazione e perdono; tanto che i più puri, come Sonja, Myškin, Alëša, sono addirittura immagini cristiche. Precorrendo il romanzo novecentesco, Dostoevskij si considerò realista nel senso più alto: perché, invece di descrivere le condizioni sociali, rappresentò tutte le profondità dell’anima umana. Il personaggio di Dostoevskij è bisognoso di redenzione e si apre al trascendente: solo allora trova pace. In caso contrario non gli resta che disperazione.
È questa, secondo l’autore, la differenza radicale tra il romanzo europeo occidentale e quello russo. L’autore concorda con Steiner nel sostenere che “la tradizione di Balzac, Dickens e Flaubert era secolare. L’arte di Tolstoj e Dostoevskij era religiosa”.
Cito dall’interessante introduzione: “I tre romanzieri si muovono così verso il recupero di un’antropologia tripartita dove, accanto alla sfera fisica e a quella psichica, emerge una sfera spirituale che consente l’inabitazione del divino nell’uomo. Solo l’esistenza di questa regione spirituale permette all’uomo di scegliere liberamente, di decidere responsabilmente sottraendosi ai condizionamenti dell’ambiente”. Così le tre grandi “anime russe” (epiteto valido sia per i personaggi che per i loro autori) restituirono all’Europa un bene preziosissimo che si stava già perdendo.
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Giuseppe Ghini, “Anime Russe”, Ares, Milano, 2014